«Vaccino, serve tempo
I medici sul territorio
decisivi in questa fase»

Intervista a Franco Locatelli , direttore Consiglio superiore di sanità. Primario all’ospedale Bambin Gesù di Roma

Franco Locatelli è il direttore del Consiglio superiore di Sanità nonché direttore del Dipartimento di Onco-ematologia e Terapia cellulare e genetica dell’ospedale Bambin Gesù di Roma.

Professore, si può già valutare l’effetto della riapertura del 4 maggio sulla curva dei contagio o è troppo presto?

Qualcosa si riesce già a valutare, tenendo conto che sostanzialmente il tempo di incubazione del Sars-CoV 2 è tra i cinque e i sette giorni. Per quanto riguarda l’apertura “allargata”, scattata lunedì 18, dovremo invece aspettare gli ultimi giorni di maggio o, meglio ancora, l’inizio di giugno.

E quali sono i primi risultati?

La chiave di lettura è che l’impatto è al momento non negativo su quello che è l’indice di contagiosità attualizzato (Rt, ndr). Tutte le regioni, fuorché tre, hanno avuto un impatto basso. Un livello un po’ più di attenzione è per Lombardia, Umbria e Molise.

E la Lombardia?

La Lombardia sul bollettino di ieri (domenica, ndr) è ancora l’unica regione che ha i numeri di nuovi contagiati a tre cifre. Anche il Piemonte, fortunatamente, è sceso a due.

Questi nuovi contagi che nella nostra regione restano a tre cifre fanno parte della fisiologicità della curva o hanno a che fare anche con la riapertura del 4 maggio?

Nella curva epidemica la discesa è più graduale rispetto alla salita. Le misure di lockdown hanno funzionato dappertutto, ma ovviamente c’è da considerare che l’area lombarda partiva da numeri elevati e ha una certa densità di popolazione.

Il presidente del Consiglio dice che ha riaperto contro il parere degli esperti e che se fosse stato per voi si sarebbe aperto solo a rischio contagio zero, mentre si deve tener conto anche della tenuta del tessuto sociale ed economico. Vi sentite sconfessati?

Personalmente no, e credo nessuno di noi. Da parte nostra sono state date indicazioni di tipo tecnico e scientifico. Il presidente Conte è decisore politico e ha necessità di contemperare la tutela della salute, che è evidentemente prioritaria, con la ripresa di determinate attività economiche e produttive.

Che dice della tendenza di scambiare i test sierologici per patentini di immunità?

La determinazione degli anticorpi non permette di dire se un soggetto è immune, e cioè non ti dà il famoso patentino di immunità. E poi bisogna anche capire quanto dura questa immunità. È un virus nuovo, neanche 5 mesi fa non sapevamo della sua esistenza. Abbiamo due modelli di coronavirus, completamente differenti. Quello che ha provocato la SarsCoV2 dà una protezione che dura in maniera sostenuta nel tempo. Il 20% dei raffreddori che noi abbiamo è invece provocato da altri ceppi di coronavirus e in questi casi la nostra immunità non dura per tanto tempo. Questa informazione sarà cruciale rispetto alle strategie vaccinali.

E a vaccino, appunto, come siamo messi?

Proprio nelle ultime ore è uscita la notizia che in alcuni volontari sani c’è una produzione di anticorpi. Però, a voler essere intellettualmente onesti, non possiamo nasconderci che non possono essere accorciati in modo estremo alcuni passaggi ineludibili, tipo quelli riferiti alla sicurezza e alla dimostrazione di efficacia. Anche a voler essere al massimo dell’ottimismo, credo che se riuscissimo ad avere un vaccino per l’inizio dell’anno prossimo, potrebbe essere un grande successo.

Il Covid-19 ci ha colto impreparati? La medicina di base, che doveva fare da filtro per gli ospedali, è stata mandata allo sbaraglio, senza mascherine e guanti.

Il presupposto è che i medici, ma anche il personale sanitario – perché ci dimentichiamo troppo spesso degli infermieri–, è stato quello che merita maggior plauso e la maggior gratitudine. Spero che questo Paese, che non brilla per memoria storica, non si dimenticherà di quello che è stato fatto dalla classe sanitaria. Anche con vite perse. Detto questo, è chiaro che una situazione come quella che abbiamo vissuto forse offre anche lo spunto per ripensare un po’ alla struttura del nostro sistema sanitario nazionale. Per rimettere ancora di più al centro la medicina territoriale. Non a caso il ministro della Salute ha identificato le risorse per gli infermieri di territorio, che possano gestire i pazienti che hanno bisogno di assistenza ma non necessitano d ospedalizzazione. C’è un piano per 8 infermieri di territorio ogni 50 mila abitanti.

Italia peggio degli altri Paesi?

Se uno guarda i numeri di mortalità rispetto agli infetti, direi che l’Italia ha un numero inferiore a quelli di altri paesi europei. Non dimentichiamoci che abbiamo svolto il ruolo di apripista. Gli altri hanno potuto trarre insegnamento da quello che è successo qui e in molti casi hanno preso modelli lavorati in Italia.

Non c’erano posti sufficienti nelle Terapie intensive.

Quando è partita l’ondata in Italia c’erano circa 5.500 posti. Numero che, per una serie di scelte fatte nel corso degli anni di minori investimenti, se non di tagli, aveva subito una contrazione importante. Il Paese ha avuto la capacità formidabile di crearne 3.600. Adesso la grande sfida è che i 3.600 posti letto non scompaiano e diventino posti in più. I soldi destinati nelle varie fasi all’ambito sanitario in pochi mesi equivalgono al budget di molti anni.

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