Economia / Como città
Venerdì 29 Novembre 2024
Cambiare rotta per crescere: «È la strada delle Soft skill»
Intervista Ilaria Capponi, founder di Axelcomm Relations parla del valore della discontinuità professionale e formativa. Sport, moda, tv: «Ho affinato teamworking e leadership»
Cambiare rotta e ripartire. Non più il segno di un fallimento; nell’ambito della formazione, semmai vale il contrario: è la strada maestra per costruire, insieme con nuove competenze, anche le qualità più ricercate per avere successo. In due parole: le “soft skills”.
E se il 79% dei lavoratori, secondo il “Workmonitor 2024” di Randstad, considera importante la formazione per la carriera professionale, il 46% del campione interpellato ammette di non aver ricevuto un aiuto, in ambito scolastico, nello sviluppo di saperi realmente adeguati al mestiere poi intrapreso.
Già la grande pensatrice Simone Weil - in quel classico che è “Attente de Dieu” - ricordava come la propria frustrazione nella matematica (aveva un fratello geniale nel settore...) l’avesse di fatto aiutata a scalare i livelli più impervi del pensiero. Insomma, i percorsi delle soft skill sono molteplici, spesso contorti, ma sempre fruttuosi.
Lo conferma Ilaria Capponi, imprenditrice (è co-founder & partner di Axelcomm Relations di Milano), tra i relatori di TEDxLakeComo il 9 e 10 novembre a Villa Erba di Cernobbio, dove “Faber” l’ha incontrata.
Signora Capponi, rispetto a vent’anni fa, oggi l’orientamento apre molti più scenari. Si può parlare ancora di “vocazione” professionale ovvero di una chiarezza di motivazioni che porta i giovani a trovare il proprio posto nel mondo?
Sicuramente ci sono una minima parte di persone che nascono predisposte e sanno esattamente cosa faranno da grandi (mi passi questo termine). Ovvero, che hanno una vocazione o una speciale passione vissuta come una sorta di guida durante gli studi.
Ma si tratta di una minoranza. Poi va considerata la maggior parte degli individui che non ha questo inquadramento motivazionale e si trova a crescere, anche nelle prospettive per la propria vita professionale, un po’ alla volta. In questo, possiamo scoprire “skill” che non immaginavamo neppure lontanamente di avere. Il mio percorso va proprio in questa direzione. Vorrei dire: è stato estremamente contorto.
Lei è imprenditrice di successo, ma è stata anche protagonista dello sport agonistico, modella, conduttrice tv. Tutto in pochissimi anni, perché è ancora molto giovane.
Ho rivestito ruoli in settori con competenze e persone completamente differenti tra loro. Sono passata dalla moda facendo la modella ad alti livelli alla pallacanestro giocando in serie A, per poi ritrovarmi a fare a fare la giornalista televisiva e, oggi, ad essere imprenditrice.
Ambiti differenti che, immagino, abbiano maturato competenze altrettanto specifiche. Ma poi, come sono entrate in gioco?
Quando ero più giovane, finché non ho effettivamente realizzato il valore e il potere di questa varietà di competenze che si acquisiscono soltanto in maniera diretta nel settore professionale, ho sempre pensato che ogni cambio di rotta fosse negativo: come a dire, un tornare indietro, ricominciando da capo e riposizionando un po’ tutto. In realtà, ho realizzato che ogni cosa fatta è stata un tassello in più per costruire la competenza imprenditoriale di oggi e, naturalmente, la persona che sono. È grazie alle esperienze del mio passato, che non c’entrano niente con la mia attività di oggi, che riesco a dialogare con qualsivoglia persona di qualsivoglia settore. Lo sport agonistico mi ha insegnato molto, in termini di teamworking e di leadership. La tv ha affinato le skill comunicative. Ho una società di comunicazione, impegnata principalmente nella corporate communication di impronta economico-finanziaria. Con i miei colleghi non ci occupiamo dell’approccio comunicativo con il consumatore, ma di quello a monte con gli imprenditori, in termini di storytelling.
A proposito di “narrative d’azienda”. Quanto è difficile far capire alle imprese che bisogna cambiare strategia comunicativa perché il marketing non basta più?
È un passaggio complesso, ma lo era ancora di più prima della pandemia: c’è stata una forte riconsiderazione del potere comunicazionale per non inabissarsi nei confronti di “competitor” e “comparable”. La digitalizzazione porta un aumento di impulsi all’utente finale, così come a tutti gli stakeholder. Quello che serve, in questo mare di messaggi, è potersi differenziare e lo si fa soltanto con una storia. Con contenuti di valori che, in genere, vanno ricercati con una strategia di base.
Quanto è difficile lavorare con gli imprenditori?
Come azienda, siamo soprattutto impegnati in Lombardia, in settori variegati. La comunicazione verticale arricchisce, soprattutto porta a creare contaminazioni mai banali. La forza del nostro lavoro è di favorire aperture di business, collaborazioni tra aziende che non c’entrano niente tra loro, ma che possono tirare fuori progetti capaci di implementare le potenzialità e il business di ognuna.
Può indicare due fattori di difficoltà e due punti di forza degli imprenditori che possono venire ottimizzati attraverso la nuova comunicazione dello storytelling?
Io riscontro due cose. Da un lato, c’è la diffidenza a farsi guidare da uno specialista. In secondo luogo, non è facile percepire il valore della strategia comunicativa, che non è “tangibile” nell’immediato, non essendo un prodotto ma una modalità di relazione. Consideri che adesso con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, tutto ciò che è strategia viene cercato disintermediando i professionisti attraverso le “digital platform”. In esse, però, manca sempre quello che il rapporto umano sa dare. Io supporto sicuramente la digitalizzazione, purché sia tecnologia a supporto dell’umano e mai il contrario. Facciamo anche fintech (financial technology, ndr) e la problematica dell’AI la sentiamo spesso a proposito del tema dei posti di lavoro che traballano, nella percezione dell’immaginario collettivo. Infine, riscontro la tendenza degli imprenditori a voler comunicare in quantità, piuttosto che in qualità.
Un esempio?
Preferire un ADV (una pagina pubblicitaria, ndr) con una presenza garantita, piuttosto che essere protagonisti su una testata nazionale di settore, in linea con il proprio business, con una storia che merita di essere raccontata.
Che cosa pensa della tendenza alla serializzazione della comunicazione corporate, su modello di Netflix?
Credo che la si possa leggere come la conseguenza di voler essere sempre presenti con contenuti online. Una volta che fraziono la mia narrazione, attraverso un podcast oppure una serie video (gli algoritmi del settore “corporate” prediligono il video come format), si può verificare l’esito contrario a quello atteso. Spezzettando un contenuto, la storia si perde, facendo venire meno l’efficacia comunicativa. Lo sto notando molto online.
Il suo impegno nella comunicazione va oltre l’attività professionale. Lei è anche molto attiva in ambito sociale contro il body shaming.
La ringrazio per averlo ricordato. Sono stata appena premiata da “Women for women” per la mia campagna social. Sto cercando di arrivare a più persone possibili e sono fiera di portare avanti questo progetto, valorizzando al meglio anche il profilo “sociale” dei social, solitamente tacciati di essere un canale di stereotipi e pregiudizi.
© Riproduzione riservata
© RIPRODUZIONE RISERVATA