Fidelizzare i dipendenti: in Italia lo sviluppo dei talenti è una pratica poco diffusa

L’intervista Francesco Massara, docente allo Iulm: «L’incentivo economico oggi non basta, bisogna puntare su strumenti di crescita»

«Gli incentivi economici non bastano, soprattutto per i lavoratori più giovani che oggi hanno possibilità di scelta sul mercato del lavoro e spesso possono contare sul supporto economico famigliare che consente loro di prendersi il tempo per la ricerca di un lavoro che li soddisfi. Per attrarli, i settori Risorse umane delle aziende devono inserire nuove competenze per comunicare ed erogare formazione col linguaggio dei giovani. Il gap fra giovani e imprese c’è, ma non è incolmabile».

Lo afferma Francesco Massara, professore di Marketing all’Università Iulm, direttore scientifico del master in Retail brand&sales management e coordinatore dell’Osservatorio Retail brand communication dell’ateneo milanese. L’Osservatorio realizza una ricerca annuale nazionale, una delle pochissime indagini che interpellano direttamente i lavoratori, in questo caso diverse migliaia, realizzata con l’Università di Parma e con Largo Consumo.

Professore, che tipo di misure fidelizzano di più i dipendenti alle aziende?

C’è un problema a monte: è necessario comprendere che a lasciare più facilmente le aziende sono i lavoratori più giovani. Incentivi economici, crescita orizzontale, misure organizzative, welfare sono gli incentivi che più spesso le aziende utilizzano per essere attrattive e che certamente hanno un loro effetto. Dalle nostre ricerche osserviamo che certamente gli incentivi economici individuali e collettivi hanno un impatto per i giovani, ma non sono la soluzione al problema della demotivazione a restare in azienda. Come noto, quello del denaro è un linguaggio che tutti capiscono. L’incentivo economico funziona a livello sia individuali sia collettivo, e il primo funziona molto meglio del secondo. Ma se ci riferiamo ai giovani la situazione si fa più complessa.

Cosa devono fare in pratica le Risorse umane aziendali?

Devono occuparsi di sviluppo dei talenti, della crescita dei giovani, assegnando loro dei senior e dei tutor che li seguano, cosa che nelle aziende più strutturate accade. Gli adulti anche in azienda tendono ad essere un po’ lontani, piuttosto isolati nei loro mondi. I giovani, a contatto col mondo dei social e con le tecnologie sanno che c’è moltissimo intorno a loro, sono informati e sanno di avere moltissime possibilità di apprendimento. Un contesto arido che non chiede loro altro che svolgere un determinato lavoro, magari sempre uguale, viene abbandonato dai ragazzi nel giro di poco tempo. Per i giovani di ieri l’apertura sul loro futuro consisteva soprattutto nella possibilità di imparare che derivava dal loro datore di lavoro. I giovani d’oggi attraverso le loro tecnologie sono dentro all’intero mondo. Quella che per gli adulti è ’la realtà virtuale delle tecnologie’ per i giovani è la vita reale.

Mediamente oggi c’è da parte delle imprese un buon livello di ascolto delle nuove esigenze dei lavoratori, soprattutto più giovani?

Nell’ambito dei settori Risorse Umane delle imprese c’è spesso una carenza strutturale nelle competenze, soprattutto nelle pmi. Non ci sono competenze specializzate sull’ascolto. Le grandi aziende sono più avanti sul tema dell’engagement, della valorizzazione, dell’ascolto, inserendo nella loro struttura ad esempio anche uno psicologo del lavoro. Il linguaggio dei giovani è diverso non solo da quello degli adulti ma anche da quello che in genere parlano le aziende. Se sull’incentivo economico ci si capisce, sul resto le aziende devono attrezzarsi per l’ascolto dei giovani. Sentiamo spesso imprese che dicono ’i giovani non vogliono lavorare’: non è affatto vero.

Perché le aziende lo dicono?

Perché non capiscono le tante esigenze che hanno i giovani, i quali oggi hanno anche diverse alternative. Una su tutte: hanno l’alternativa di base economica data dalle famiglie, perciò oggi un giovane trentenne può permettersi di rimanere a casa per mesi senza problemi, senza pagare un affitto. La maggior agiatezza a disposizione dei Millennials, unita ai minori numeri dati dal calo demografico contribuiscono a creare un ambiente di maggior possibilità di scelta lavorativa per i giovani. Per i ragazzi l’incentivo economico non è determinante, loro vogliono imparare, quindi bisogna che le aziende sappiano valorizzarsi ai loro occhi ma utilizzando il loro linguaggio.

Lei conosce a fondo le imprese del lusso, un mondo attrattivo per i giovani. Vede le stesse dinamiche anche in quel settore?

Quello del lusso è un mondo in cui le persone dopo 2-3 anni lasciano, e parliamo di aziende dove peraltro si guadagna benissimo. Se ne vanno persino da lì, perché vogliono imparare cose nuove. Ogni azienda oggi se vuole essere attrattiva deve ripensare alle misure da offrire, trasmettendole col linguaggio dei giovani e agire sulle carenze.

In media a che età migliora la soddisfazione verso il proprio lavoro?

Accade intorno ai 40 anni, perciò i lavoratori più esperti lasciano di meno l’azienda rispetto ai giovani.

I più esperti restano tuttavia oggi anche fra i più ricercati dalle imprese. Sono loro a determinare quel nuovo turnover dato dal fatto che, per mancanza di personale, le imprese sono tornate a ’rubarsi’ i migliori?

Ciò accade da sempre, le risorse umane di valore e competente hanno mercato da sempre. Forse ora, con la mancanza di personale questo aspetto si avverte un po’ di più, essendosi ridotta la base. In relazione al cambiamento in atto nel mercato del lavoro anche la funzione Risorse Umane, in passato considerata solo una componente di staff data l’abbondanza di offerta di personale, nelle imprese è cambiata. In passato si puntava a rendere efficiente il meccanismo di turnover, bastava ’aprire la porta’ e le persone entravano, a fronte di qualcuno che usciva. Sia per la mancanza di personale, sia perché le relazioni nel business sono diventate molto più importanti, oggi il settore delle risorse umane è diventato strategico.

È necessario che le pmi dunque rivedano le loro politiche del personale?

Sì. Quella delle Risorse Umane non deve più essere una funzione amministrativa, deve sostenere invece le strategie aziendali con competenze allineate alle richieste del mercato. Le pmi devono imparare il linguaggio dei giovani all’insegna di quattro elementi: creare socialità nel lavoro, non prendersi troppo sul serio nella modalità di insegnamento ai giovani e utilizzare minor formalità nei rapporti interni anche solo inserendo momenti di scambio conviviali extra lavoro con i dipendenti, inserire semplicità, mettere a disposizione gratificazioni immediate con incentivi economici extra. Questo canovaccio è possibile per ogni azienda e prevede aspetti non banali per legare i giovani all’azienda.

Si deve dunque anche innovare nel modo di fare formazione?

Sì, la formazione deve essere mista ad attività di coaching che alleggerisca la trasmissione delle competenze. Invece nelle piccole e medie imprese prevale una modalità di formazione tradizionale, rigida. E quando ci sono delle gabbie aumenta la voglia di uscirne, di trovare alternative. Senza dimenticare che il mondo frequentato dai ragazzi, quello dei social, è fortemente improntato sulle emozioni, le quali sono una leva importante per agire con i giovani in ambito aziendale.

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