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Il tema Intervista alla professoressa Emma Zavarrone dell’Università Iulm, sull’analisi di qualità ed efficacia dei percorsi
Spendere molti soldi pubblici e privati in percorsi di formazione pianificando in partenza il ritorno sull’investimento: «lo si può fare solo se in azienda e nel pubblico c’è una cultura del dato», afferma Emma Zavarrone, professoressa associata di Statistica Sociale e Demografia all’Università Iulm, «senza la quale i risultati della formazione rischiano di trasformarsi più che altro in una scommessa».
Secondo uno studio Istat di fine 2022 un’azienda spende in media 56 euro per un’ora di formazione, con oltre 6,2 miliardi investiti nel 2020. Fra inserimento di neo assunti, aggiornamento, potenziamento delle competenze, l’indotto della formazione è in piena ripartenza, spinto dalla necessità di adattamento alle nuove tecnologie.
I dati rilasciati nel 2024 da Almalaurea su base Istat ci dicono che nel 2023 i laureati sono stati 295.104. A loro si aggiungono i giovani che escono dagli Its e i diplomati di scuola secondaria superiore e delle scuole professionali. La formazione è un tema tangente che riguarda le persone inserite e in inserimento nei contesti lavorativi. Di conseguenza diventa importante capire, a seconda del diverso background delle persone, di quale capitale umano si parli, visto che per ogni persona in azienda sono diversi i percorsi formativi e i Kpi (Key Performance Indicator), cioè gli indicatori di valutazione delle prestazioni da raggiungere. Non esiste una metrica generale, esiste un processo di valutazione all’interno del quale ci sono diversi indicatori che a seconda del capitale umano di riferimento possono essere costruiti.
Il primo step riguarda la valutazione delle competenze di partenza di un giovane, un secondo step riguarda la valutazione delle competenze che servono all’azienda, con misurazione del gap da andare a colmare. Esistono diversi indicatori, fra cui il Roi, il più noto per misurare il ritorno sull’investimento.
Si fissa l’obiettivo, si istituisce il corso, si quantifica il beneficio dopo che l’allievo lo ha frequentato, si sottraggono i costi e il dato economico che si ottiene determina il guadagno. La formula è semplice ma è complesso stabilire tutto il processo: per poter quantificare il beneficio un’impresa deve prima quantificare cosa le serve e come deve raggiungere lo scopo.
L’altro modello molto utilizzato nella formazione è il Kirkpatrick, che crea delle prassi propedeutiche per guidare il formatore o l’azienda nell’identificare innanzitutto i bisogno (facendo uno scarto fra le competenze del lavoratore e ciò che deve fare) ma, ancora prima, fissando dei Kpi, cioè definendo cosa si deve raggiungere e cosa manca per raggiungerlo.
Nella fase della formazione subentrano diversi step: formazione in presenza, a distanza, mista, learning by doing sono le diverse metodologie per consolidare la competenza. A fronte di ciò si applicano i diversi indicatori: il primo riguarda la soddisfazione delle persone in formazione, attraverso il classico questionario finale. Poi, fase importantissima, c’è l’osservazione per comprendere quanto di ciò che l’allievo ha imparato è effettivamente trasferito nel suo modus operandi. È l’osservazione che fa l’azienda dandosi un periodo temporale, in quello che viene definito un criterio Smart, acronimo di specifico, misurabile, attuabile, rilevante e conciso nel tempo. Tutti i Kpi devono corrispondere a tale logica necessaria di valutazione. Tutto ciò comporta una trasformazione, un impatto quantificabile nel beneficio che se ne trae: se cambio modo di lavorare, se applico una procedura, se introduco delle innovazioni acquisite dal corso di formazione la mia parte di lavoro sarà svolta in modo più performante, cosa da cui deriva un preciso beneficio che può essere quantificato.
Se, data l’acquisizione di determinate competenze attraverso la formazione, fisso il Kpi di poter svolgere un’attività in metà del tempo consueto il mio beneficio deve essere proprio in quel tempo risparmiato.
C’è una netta distinzione fra le aziende che hanno cultura del dato, solitamente le più strutturate, e quelle che non ne hanno. Per quantificare l’efficacia è necessario avere un sistema aziendale che predisponga la rilevazione del prima e del dopo, altrimenti è impossibile capire il beneficio. Fare il corso, concluderlo col questionario che magari rileva che l’80% dei partecipanti si dichiara soddisfatto e fermarsi lì, al questionario, non consente di sapere se davvero si è apportata un’innovazione nella formazione né di quantificare i benefici.
Tutti i settori scontano un sovraffollamento sulla formazione, distinguere chi sa far bene il proprio mestiere di formatore è necessario. È bene fare riferimento a strutture presenti da anni sul mercato e alla loro reputazione, ai risultati che hanno ottenuto e ai metodi che utilizzano. È importante sapere se tali strutture accompagnano il processo di formazione in tutte le fasi o se si limitano a erogare una formazione standard. Ad esempio, fino a poco tempo fa erano molto richiesti i corsi di formazione sulle soft skill, per le quali ci sono diversi modi per sviluppare l’attitudine delle persone: non basta ad esempio definire quali sono quelle da potenziare ma anche sapere qual è la didattica migliore per farle emergere e applicarle, perché un contesto aziendale è diverso da un altro. Per scegliere una struttura formativa si deve dunque sapere se i formatori utilizzano metodi innovativi o classici, che disponibilità hanno nel costruire insieme all’azienda il percorso formativo e soprattutto la sua misurazione di efficacia. Che non è la soddisfazione, ma è il famoso saper fare.
Il saper fare è un aspetto che ci riguarda anche come università Iulm, tanto da averlo da sempre inserito ormai come parte integrante del nostro Dna, dimostrato dal fatto di avere un tasso elevato, oltre l’86%, di collocazione sul mercato del lavoro a un anno dalla laurea, a fronte di una media italiana del 64,4% per la laurea triennale e del 74,2% per la magistrale: è un nostro punto di forza che deriva dalla capacità dell’ateneo di essere flessibile nell’adeguarsi ai cambiamenti del mercato del lavoro.
Molte volte c’è un divario fra quello che si scrive e quello che si fa. Nel pubblico nel 1987 nascono i primi nuclei di valutazione, in seguito soppressi e rinati in altre forme, la propensione alla verifica c’è. Sull’attuazione sono più perplessa, molto dipende dalla sensibilità dei singoli che nelle diverse sedi metteranno in atto le scelte. Accade che ci sia uno scostamento fra quello che si scrive nelle normative e quello che si fa. Soprattutto c’è nel pubblico un’assenza, e anche una paura, della cultura del dato.
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