Gen Z e social media: il dietro le quinte che le imprese non possono più ignorare

Capitale umano La reputazione digitale come bussola per la ricerca dei giovani talenti. Pogliani (Head of digital): «Usati anche per sondare gli aspetti più nascosti del candidato»

Nell’era digitale, la reputazione online non è più solo un accessorio, ma un pilastro strategico per individui e aziende. La digital reputation, ovvero la percezione pubblica costruita attraverso i contenuti online, sta diventando un elemento determinante nei processi di selezione del personale.

In particolare, la Generazione Z è nota per il suo utilizzo intensivo dei social media. Secondo un rapporto di Hootsuite, l’utente medio dei social media trascorre circa 2 ore e 29 minuti al giorno sulle varie piattaforme, pari a circa il 15% del tempo di veglia mensile. In Italia, un’indagine dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano ha rilevato che il 72% dei giovani tra i 18 e i 25 anni utilizza i social media per cercare opportunità lavorative e costruire la propria identità professionale. Questi giovani, cresciuti con smartphone e social media, possiedono competenze digitali avanzate e utilizzano piattaforme come Linkedin e Instagram per fare rete e promuovere il proprio brand personale. Inoltre i social media non sono solo strumenti per i candidati, ma anche per i datori di lavoro che cercano talenti.

Una carta d’identità digitale

«Oggi i social media sono una sorta di carta d’identità digitale: ciò che pubblichiamo contribuisce a costruire una narrazione di noi stessi, influenzando le decisioni di chi ci valuta», afferma Matteo Pogliani, partner di Open Box e Ceo di FortyDegrees, fondatore di Onim (Osservatorio nazionale Influencer Marketing ) e docente di comunicazione digitale. «Non è solo una questione di contenuti professionali, ma anche di come ci presentiamo nella nostra vita quotidiana, perché tutto contribuisce a creare un’immagine globale che viene analizzata e valutata dalle aziende», aggiunge. L’integrazione dei social media nel processo di recruiting è ormai una prassi consolidata. Secondo un’indagine di Jobvite il 92% dei recruiter utilizza i social per raccogliere informazioni sui candidati. Linkedin rimane la piattaforma più sfruttata per la selezione di profili qualificati, ma l’uso di Instagram ha registrato un incremento del 28% negli ultimi anni. «I social sono diventati uno strumento imprescindibile per verificare non solo le competenze dichiarate, ma anche per sondare aspetti più nascosti, come la personalità e il comportamento del candidato - spiega Pogliani -. Ciò che condividiamo, dai post alle storie, può rivelare molto del nostro carattere, della nostra capacità di relazionarci e persino della nostra stabilità emotiva». Una recente ricerca dell’Università di Teheran ha esplorato il potenziale dei profili Instagram nell’individuare competenze trasversali (soft skills) e tratti della personalità, utilizzando algoritmi di intelligenza artificiale. Lo studio ha dimostrato che è possibile prevedere con un’accuratezza del 70% competenze come la negoziazione, la capacità decisionale e l’orientamento alla qualità, elementi cruciali per il successo professionale.

I rischi di un post informale

«L’analisi automatizzata dei dati digitali offre una visione profonda e oggettiva delle soft skills, che spesso non emergono durante i colloqui tradizionali - osserva Pogliani -. Questo approccio permette di individuare talenti nascosti e di comprendere meglio la compatibilità culturale del candidato con l’azienda». Pogliani mette però in evidenza i rischi legati a questo approccio: «Sebbene l’analisi delle tracce digitali offra insight approfonditi, non dobbiamo dimenticare che i social rappresentano una versione costruita della realtà. Il rischio di sovrainterpretare un contenuto e trarne conclusioni errate è alto. Non possiamo considerare un post pubblicato durante un evento informale come indicativo della serietà professionale di una persona».

Tuttavia, è innegabile che la digital reputation incida sempre di più nelle decisioni aziendali, specialmente per ruoli di alta visibilità o responsabilità pubblica. «Le aziende devono valutare attentamente chi rappresenta il loro brand, perché anche un singolo errore può avere ripercussioni significative sull’immagine aziendale», sottolinea. La ricerca evidenzia anche l’importanza dell’intelligenza artificiale nel ridurre il bias nelle valutazioni. Gli algoritmi utilizzati per analizzare i profili social sono risultati più precisi dei giudizi umani, superando persino le valutazioni fatte da persone vicine al candidato. Questi sistemi analizzano un ampio spettro di dati, dalle interazioni con i follower alla scelta delle parole nei post, e permettono di prevedere tratti della personalità secondo il modello Big Five, che include estroversione, coscienziosità, apertura mentale, gradevolezza e stabilità emotiva.

Un mix con i metodi tradizionali

Tuttavia, l’adozione di questi strumenti solleva anche questioni etiche e legali. L’analisi dei profili social può portare a discriminazioni involontarie, come evidenziato da uno studio di Van Iddekinge, che ha riscontrato un bias a favore di candidati bianchi e di genere maschile nelle valutazioni basate sui social media. «L’uso dei social per la selezione del personale deve essere gestito con cautela e trasparenza, evitando giudizi superficiali e discriminatori - avverte Pogliani -. Non dobbiamo dimenticare che ogni candidato ha una storia unica, che non può essere ridotta a una serie di post o a un like su Instagram». In definitiva, l’influenza dei social media nelle scelte aziendali è destinata a crescere, ma non senza sfide. Mentre la digital reputation offre un’opportunità unica per arricchire il processo di selezione con informazioni complementari, resta fondamentale un approccio bilanciato che integri i dati digitali con una valutazione umana attenta e consapevole. «Il vero valore aggiunto risiede nella capacità di combinare l’analisi dei social con metodi tradizionali, per costruire un quadro completo del candidato che vada oltre l’apparenza digitale - conclude Pogliani -. Solo così possiamo assicurarci di scegliere persone che non solo soddisfano i requisiti tecnici, ma che incarnino anche i valori e la cultura dell’azienda».

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