«Il potere degli algoritmi: così non si premia il merito»

Faber Il professor Giuseppe Conti dell’Università di Pisa mette a confronto le università Usa ed europee «Sono necessarie forme concorsuali serie»

Una critica alla conoscenza “utile”, che guarda al profitto e all’ aziendalizzazione degli atenei. Il modello americano, che spesso si misura come standard ideale di formazione, mostra i propri limiti nell’analisi del professor Giuseppe Conti dell’Università di Pisa, autore di un pamphlet - “Gli affari all’assalto dei saperi” (Mimesis). Nel riprendere la critica di Thorstein Veblen al sistema accademico Usa, si rivolge non senza preoccupazione alla situazione italiana ed europea. Che, a quel modello si sono negli anni variamente uniformate.

Professor Conti, che cosa non ha funzionato nel sistema americano delle università supportate dai privati?

Quando, a fine ‘800, gli oligarchi americani della finanza e dell’industria iniziarono a conquistare i territori della formazione e dei saperi per orientarli verso quelli “utili” ogni giovane americano che si accingeva a compiere studi universitari aspirava a iscriversi in un’università europea. A cambiare le cose contribuì in modo determinante il “fortuito” trasferimento forzoso di intelligenze in fuga dall’Europa flagellata dalle due guerre mondiali e dalle nefaste dittature fasciste e dei soviet in Russia. Il sociologo Thorstein Veblen aveva intuito già prima che la Grande guerra giungesse a conclusione che il sistema universitario americano avrebbe potuto temperare l’arroganza dei magnati industriali attraverso l’acquisizione in massa di “cervelli” da oltre Atlantico.

Si può dire che le cose si sono involute quando i poteri oligarchici sulle università private o pubbliche hanno ripreso il sopravvento, e si sono riproposte le preoccupazioni che negli anni ‘20 studiosi come Veblen e il pedagogo e organizzatore Abraham Flexner nutrivano per la deriva che poteva prendere il mondo del sapere e della formazione nel suo complesso se orientato verso gli studi “professionalizzanti”.

Quel modello, sempre più pervasivo anche in Europa, come si presenta oggi in Italia?

Del così detto modello americano, l’Europa ha abbracciato solo la sua versione neoliberale, di centralizzazione dei controlli e di governo manageriale delle università, ancora non ben definito ma ispirato alla professionalizzazione e ai saperi ritenuti “utili”. A questo si aggiunge che le pressioni per portare a termine un modello unico anche per l’educazione superiore su scala internazionale limitano e sopprimono le possibili pluralità culturali. Oggi gli interessi affaristico-politici stanno invadendo le università attraverso forme gestionali che applicate nella produzione del sapere non si traducono necessariamente in efficienza. Di questo ne era già consapevole un organizzatore di cultura e di scienza come il ricordato Flexner, fondatore del prestigioso Institute for Advanced Studies di Princeton.

Lei sostiene che il sistema del merito ha punti deboli. Quali sono?

Così come si stanno prospettando le valutazioni di merito, con algoritmi numerici per singoli ricercatori e centri universitari, le debolezze sono molte e i meriti personali sono l’ultima cosa a cui mirano. I problemi per giungere a numerizzare, cioè a prezzare, i talenti intellettuali espressi negli scritti e in altre opere dell’intelligenza e dell’immaginazione sono molti e insidiosi. Si stanno creando discipline nuove dette bibliometriche che Giorgio Israel, da matematico ed economista di valore, ha definito «pseudoscienze e scienze dei nullatenenti». Viene meno un principio di armonico sviluppo di un sistema nel suo complesso, ormai frammentato in aziende-università a insediamento territoriale e a crescita aziendale. I ranking tra atenei premiano l’allargamento delle distanze tra le cosiddette “eccellenze” e i fanalini di coda. Una volta che le distanze tra i primi e gli ultimi diventano voragini, sarà impossibile alle (aziende) università che si trovano in fondo a una lista-graduatoria poter risalire la china. L’utopia meritocratica per creare concorrenza tra atenei rischia di risolversi in un incubo distopico.

Nel libro lei mostra che un sistema educativo non può prescindere da criteri di merito personale in base ai quali regolare l’accesso ai posti e alla progressione delle carriere…

Sì, ma seguendo forme concorsuali serie che superino le attuali discrezionalità dell’aziendalismo universitario e delle prezzature bibliometriche, che possono essere uno strumento ma non esclusivo. In una comunità scientifica i lavori svolti si leggono, si verificano e si discutono. Questi procedimenti sono imprescindibili. Agli inizi del secolo scorso il sistema di reclutamento della docenza in Italia era apprezzato perché aperto, trasparente e con minori rischi di poteri “baronali”, rispetto a quello tedesco in cui un burocrate, per quanto molto illuminato, decideva a sua discrezione sull’assegnazione di posti e sulle promozioni. Cosa succede se questi poteri venissero trasferiti alle aziende universitarie territoriali, come lentamente sta avvenendo? Il sistema dell’educazione e della ricerca resta “sano” se è garantita autonomia di valutazione evitando, al tempo stesso, ogni tipo di coagulo di poteri accademici. È quanto ho cercato di motivare per un sistema che vuol davvero premiare il merito personale e consentire opportunità uguali di “meritarsi” i premi in un’Università che sia prima di tutto italiana o europea, indipendentemente dall’ateneo-azienda X o Y.

Dagli anni 90, lei sostiene, si è verificato un affossamento dei sistemi europei tradizionali, nel quadro di un ordine neoliberale avviato dall’Europa. Quali le fasi?

Il “processo di Bologna” è l’avvio canonico di un continuo percorso di riforme e controriforme dei sistemi universitari. Alla base vi è la stessa idea espressa da Rockefeller un secolo prima e volta proprio a “professionalizzare” gli indirizzi di formazione e di ricerca. Il progetto è molto illusorio, presuppone di poter sapere quali siano le professionalità richieste in economie tecnologicamente avanzate ma in continua evoluzione. Le professionalità di oggi non sono quelle di domani. Una preparazione culturalmente critica e scientificamente solida fornisce gli strumenti necessari per adattarsi al nuovo, e per innovare e gestire, e non subire, i successivi cambiamenti. Nei paesi occidentali, il vecchio ordine delle università era a servizio della nazione/patria, e, sia pure per onore e prestigio, l’obiettivo primo era di fornire indirizzi aperti sui saperi al fine di aprire la strada allo sviluppo economico quanto civile.

La concorrenza tra università dei “saperi utili”, dove ci sta portando?

La concorrenza dovrebbe essere un metodo di selezione. Ho cercato di dimostrare che farne il principio guida anche per le istituzioni, e specialmente per le istituzioni della formazione, sia fonte di errori (senza contare le ingenti spese che ciò comporta per un’iper-burocrazia di controlli e valutazioni come nell’attuale caso italiano). Ciò ha già prodotto guasti evidenti impedendo la mobilità inter-atenei di docenti e ricercatori, esaltando la precarizzazione dei ricercatori, quella stessa contro cui si ribellarono i docenti americani che reclamarono il posto fisso.

Il “Processo di Bologna”, che nel ’99 ha uniformato la formazione superiore, a che risultati ha portato?

Le critiche puntuali e circostanziate su quel “processo” bolognese sono molte sia in Italia che all’estero (Stati Uniti inclusi per quella che viene detta la “macdonaldization” delle università), sono diffuse nel web e in migliaia di libri e articoli scientifici. Molte di quelle critiche e della loro portata sociale non sono state pienamente recepite nel mondo dei media, nonostante sia un “mondo” strettamente collegato a quello della formazione, della ricerca e, credo, corra molti degli stessi rischi. Ciò di cui mi sono preoccupato è di definire la “filosofia” sottostante che riguarda, in poche parole, in che tipo di società vogliamo vivere. Tenere separata l’Università dalle logiche aziendali credo sia la soluzione a cui guardare. I modelli ci sono nel nostro presente e nella storia passata. Si tratta solo di saperli integrare e migliorare.

© Riproduzione riservata

© RIPRODUZIONE RISERVATA