Intervista al ministro Marina Calderone: «Formazione digitale per attrarre i giovani nelle aziende»

Delta Index Il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla distanza tra le imprese e la Generazione Z. «Le aziende riconoscano le esigenze indiviudali e favoriscano welfare aziendale e obiettivi di produttività»

Più che un settore dell’economia da governare, quello relativo al lavoro delle nuove generazioni appare quasi come un campo di battaglia: se su un fronte si combatte duramente nella caccia agli «introvabili», quei profili tecnici di cui le aziende hanno un bisogno famelico, su un altro brucia il focolaio degli inattivi da «stanare», il tutto annebbiato da una copertura mimetica dei giovani nella scelta del posto di lavoro che disorienta la strategia delle aziende. Diventa quindi sempre più complicato incrociare le esigenze di selezione e la domanda di lavoro. Una sfida che affrontiamo in un’intervista con Marina Calderone, ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. «Il disallineamento - sottolinea il ministro - è tra i problemi più gravi che l’economia italiana deve affrontare oggi. È un tema che mi vede in prima linea insieme al governo».

Quali misure state adottando per migliorare questo rapporto complicato?

«Il governo sta agendo in diversi modi: sosteniamo e promuoviamo le scelte di welfare aziendale, i contratti di produttività e i fringe benefits. Sosteniamo gli investimenti e la certificazione delle competenze, le politiche attive, e abbiamo promosso col nuovo Decreto Coesione un pacchetto importante di incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato proprio dei giovani».

Il futuro del nostro Paese si gioca molto sulla capacità di valorizzare le competenze dei giovani nel percorso lavorativo. Come possono le aziende adattarsi alle mutevoli aspettative delle nuove generazioni?

«Lo scenario è mutato, fanno la differenza le imprese che, valorizzando il capitale umano e incentivando il benessere organizzativo e il welfare aziendale, migliorano le condizioni di lavoro e in questo modo determinano un miglioramento della capacità dell’azienda di innovare e produrre. Nei sistemi evoluti, sono le aziende che migliorano le condizioni del lavoro le più competitive sul mercato. Non si tratta qui di fare filantropia, ma capire come la rivoluzione digitale abbia posizionato sempre di più i fattori produttivi quantitativi sulla tecnologia e quelli qualitativi sul capitale umano. Le aziende più performanti sono pure quelle in cui si lavora meglio. Si fa qualità col valore del capitale umano. La sfida oggi è quella di portare le piccole imprese a cogliere questa dimensione, ovvero la centralità del fattore umano, per non rimanere indietro nei processi economici. Si può fare di più. I contratti collettivi possono promuovere scelte più avanzate e la bilateralità sostenere strumenti più adatti».

Spesso le aziende sono a caccia di giovani già pronti e formati per il mondo del lavoro. La realtà ci offre però una narrazione diversa. Quanto crede il governo nella formazione continua sul lavoro?

«Ci sono due questioni che vanno affrontate. La prima è che un titolo di studio definisce una conoscenza, non una competenza. In questo senso, è il sistema formativo e scolastico che deve concorrere a far comprendere meglio cosa sono l’azienda e il lavoro agli studenti nei percorsi curriculari. Il successo delle sperimentazioni del sistema duale mostra come in questi tempi la domanda di formazione in azienda sia in crescita e sia fondamentale per i profili tecnici. La seconda questione riguarda il fatto che ogni azienda produttiva ha un suo sistema tecnologico e organizzativo di riferimento e che anche per questo è quasi sempre necessario svolgere un affiancamento formativo in ingresso, quello che veniva chiamato periodo di prova».

Come state intervenendo su questo fronte?

«Favorendo il sistema duale e aggiornando l’apprendistato, mentre una edizione totalmente rinnovata del Fondo nuove competenze avrà una linea di finanziamento alla formazione per i neoassunti, che abbatta il costo del lavoro nel periodo di attività formativa. Siamo poi convinti della centralità della formazione continua che porta a un costante confronto con i principali fondi interprofessionali, perché la loro azione diventi una componente del sistema delle politiche attive per l’accompagnamento al lavoro».

La generazione Z cerca flessibilità oraria e desidera vivere la vita con maggior equilibrio tra il tempo del lavoro e quello personale. Come valuta l’impatto del lavoro da remoto sull’attrattività delle aziende per i giovani talenti?

«È una prospettiva che va promossa e sostenuta. È un’opportunità da collegare in modo significativo alla nuova fase della contrattazione collettiva. Eppure, il lavoro da remoto è soltanto una delle forme con cui si può rendere il lavoro davvero “smart”. L’attrattività delle aziende nasce anche da una capacità di essere agili e lungimiranti in senso ampio nella garanzia di percorsi di formazione e aggiornamento, nella promozione del cambiamento e dell’avanzamento di carriera, nella possibilità di lavorare in ragione dei risultati e degli obiettivi, nella consapevolezza di poter cambiare le modalità organizzative anche grazie all’intelligenza artificiale secondo le proprie esigenze personali e familiari».

Non crede che la rivoluzione digitale richieda un cambiamento di paradigma nel rapporto tra generazioni all’interno delle aziende?

«Certo, le nuove generazioni capiscono l’obiettivo del risultato, ma si aspettano che i modi e le forme per raggiungerlo vadano lasciate a una capacità organizzativa in cui l’autonomia e le esigenze individuali siano riconosciute. Non tutte le aziende italiane sono oggi organizzate in questa prospettiva e credo sia utile un cambio di mentalità: nella rivoluzione digitale non possiamo mantenere i modi di pensare e gli atteggiamenti dei tempi del fordismo».

L’Italia viaggia a velocità diverse e in alcune aree più produttive dove la richiesta di lavoratori è più alta si registra una maggiore carenza di giovani. A questo si aggiunge il calo demografico e il ricambio generazionale. Come far fronte a questo grosso problema?

«Intervenendo in primo luogo sulla formazione e riqualificazione delle competenze dei disoccupati. Ottocentomila ne stiamo formando grazie al programma Gol finanziato dal PNRR, e li prepariamo alla domanda di competenze che viene dal mercato, attraverso i percorsi di formazione per l’occupabilità, anche di breve durata. Dobbiamo poi rafforzare gli interventi sui giovani Neet, circa un milione e 800 mila under 35 che nella maggioranza dei casi hanno bisogno di un intervento di aggiornamento delle competenze per entrare nel mercato del lavoro. In questi mesi l’occupazione è cresciuta, ma dobbiamo fare in modo che le persone siano in grado quanto prima di rientrare nel mondo del lavoro per poter rispondere a una domanda delle imprese che è stimolata proprio dal passaggio generazionale ormai in atto. Se diventano più competitive, le aziende possono attrarre di più le nuove generazioni e ridurre il rischio di fuga all’estero. Nei prossimi quattro anni, più di 3 milioni di lavoratori andranno in pensione e lasceranno il posto a una nuova generazione che è in media più scolarizzata, ma anche più selettiva perché meno numerosa. L’obiettivo resta l’aumento del tasso di occupazione, unico autentico rimedio all’impatto negativo dell’andamento demografico. Non ignoriamo certo che nei Paesi occidentali con più persone al lavoro e con più stipendi si fanno pure più figli. In questo modo, il welfare aziendale diventa uno strumento fondamentale per la ripresa demografica».

I giovani non pensano più solo allo stipendio, ma se vengono pagati poco non fanno crescere il Paese oppure lo lasciano proprio. Come invertire la rotta? Con una politica dell’immigrazione modulata sul lavoro?

«L’inversione di rotta deve basarsi su analisi reali e non su presupposti ideologici o retorici. Il dato reale dice che i salari sono legati alla capacità dell’impresa di creare valore. È una regola di base dell’economia che forse qualcuno ogni tanto dimentica. La creazione di valore dipende inoltre dalla produttività e dall’innovazione, che a loro volta dipendono sempre di più, per l’aspetto qualitativo, dalla presenza di competenze, mentre per gli elementi quantitativi dalla capacità di usare le tecnologie. Da questo non si scappa. Così come non si scappa dal fatto che una parte piuttosto significativa della nostra economia è fatta da attività a basso valore aggiunto. Noi oggi viviamo la contraddizione che i settori che chiedono più personale in termini quantitativi, pensiamo al turismo, sono anche quelli con i salari medi più bassi e meno produttivi e innovativi. Quindi dobbiamo per prima cosa agire sui presupposti economici delle retribuzioni, perché se non si crea valore non lo si può distribuire».

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale può essere un elemento attrattivo per le aziende rispetto alla Generazione Z o ridurrà gli spazi di inserimento nel mondo del lavoro?

«L’intelligenza artificiale ci ha messo davanti a una realtà che non va respinta a priori, ma governata. Le competenze per decidere, scegliere, cambiare, innovare e generare sono quelle che non sono sostituibili dall’algoritmo, mentre quelle esecutive lo sono più facilmente. Diventa quindi centrale il salto di qualità delle competenze e anche la capacità di affiancare alle competenze tecniche, da aggiornare costantemente, quelle umane e culturali, che spesso sono state trascurate . L’area delle competenze comportamentali e emotive è fondamentale. Il ripensamento della formazione e delle competenze, e la promozione del fattore umano come distintivo, sono assolutamente centrali. Vince la sfida del lavoro, oggi, chi sa sostenere e promuovere l’unicità e non l’uniformità. E l’intelligenza artificiale può aumentare le opportunità solo se affiancata a una strategia di investimento su cultura e formazione che sia accessibile a tutti. Altrimenti si rischia una società in cui chi è privo di competenze adatte diventa sostituibile dalle macchine e non ricerca più un lavoro ma un reddito sociale. È un rischio che non possiamo correre, sarebbe insostenibile».

A volte si confonde il nuovo modo dei giovani di affrontare la vita, e quindi il lavoro, come ricerca di una “confort zone”. Lei cosa ne pensa?

«È sempre sbagliato generalizzare. L’Italia in questi anni ha dimostrato di saper creare talenti e formare giovani volonterosi. Il problema è che non sempre siamo riusciti a trattenerli, offrendo le condizioni adeguate. Le imprese devono fare la loro parte e rendersi attrattive. La domanda di flessibilità nelle modalità con cui lavorare appartiene a tutte le nazioni più evolute, in cambio si deve chiedere il raggiungimento di obiettivi e risultati, che in una economia avanzata e tecnologica non dipendono da quanto ma da come si lavora. L’atteggiamento rinunciatario quando lo riscontriamo nei giovani dipende anche dall’assenza di stimoli, che vanno alimentati, e da problemi di povertà educativa. Inoltre, in questi anni abbiamo avuto un vero e proprio attacco al lavoro come cultura ed etica di riferimento, anche per la prevalenza di un individualismo che ha indebolito i legami sociali e reso le nuove generazioni, nonostante il palliativo dei social media, in realtà più sole e isolate. La ricostruzione del dialogo tra le generazioni passa per la capacità di ascolto, di comprensione, di educazione, di offrire prospettive e rimettere al centro il lavoro come valore, le competenze come strumento per affermare l’autonomia, e in questo modo la libertà delle persone e soprattutto dei giovani».

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