Manager, meglio pescare dalla cantera o “un papa straniero”?

Capitale umano Due opzioni come nel calcio: da una parte i De la Puente (Spagna), d’altra gli Spalletti o i Montella. Nelle aziende il modello de L’Oreal o di IBM che allevano in casa i vertici aziendali e, al contrario, di Apple e Ferrari

Il recente campionato europeo ci ha consegnato alcune interessanti spunti di riflessione sul background dei commissari tecnici/selezionatori arrivati alla finale di Berlino e su quelli che, invece, si sono fermati prima.

Una parte dei coach provenivano dal settore federale, dalla cantera, come il vincitore De la Puente e lo sconfitto Southgate; altri invece provenivano dalle squadre di club, come il nostro Spalletti - la cui squadra è uscita subito – oppure Vincenzo Montella e Murat Yakin che con la Turchia e la Svizzera hanno mostrato un buon calcio. I giornalisti e i commentatori sportivi italiani hanno immediatamente acceso questo dibattito, forse anche allontanare i tifosi dal fallimento della nostra nazionale, inducendo una riflessione che può andare oltre lo sport e riferirsi anche al mondo delle imprese, soprattutto quelle di maggiori dimensioni e internazionali. Nella mia esperienza professionale ho assistito direttamente e indirettamente a situazioni che si possono inserire nel dibattito con qualche considerazione interessante. Mi spiego meglio: quando un’azienda deve definire la sua identità, la cultura organizzativa e manageriale, deve inevitabilmente decidere quali siano i criteri di selezione del top management, soprattutto se vuole diventare competitiva ed avere successo. A volte ciò non è il frutto di una riflessione razionale, il fondatore ha – infatti – ha scelto subito per tutti la soluzione che gli andava meglio, in altri casi, invece, come nelle public company, le grandi aziende a base azionaria molto diffusa, il modello organizzativo e il top management hanno seguito un processo più articolato e complesso. Alcuni esempi per chiarire.

Dalla cantera

Il primo l’ho conosciuto molto bene: L’Oreal. Questa azienda globale, con fatturato di oltre 40 miliardi e utili netti di 4, fin dall’inizio ha scelto di crescere solo per linee interne, alimentando la struttura organizzativa con giovani da formare nel tempo e indirizzare verso le funzioni aziendali più adatte allo sviluppo delle capacità di ciascuno.

La fidelizzazione ha funzionato per oltre cent’anni e funziona ancora, ci sono state delle uscite di manager verso altre aziende del settore, ma quelli al top sono rimasti e hanno sempre avuto grandi opportunità anche fuori dall’azienda. Per esempio, hanno fatto parte di consigli d’amministrazione di altrettante aziende di successo: nel nostro caso, il mitico presidente Paul Egon, l’artefice riconosciuto dei grandi successi de L’Oreal, è stato per molti anni nel cda della Ferrari. Per inciso, l’azienda è di tipo familiare perché la signora Betancourt possiede, come la Nestlé, un terzo del capitale quotato in più Borse. Un episodio personale per sottolineare lo stile aziendale: quando sono stato assunto in Cosmetica Italia, gennaio 2006, avevo già in agenda - un mese dopo – il “pellegrinaggio” di due giorni a Parigi per incontrare i top manager e per visitare il grande centro di ricerca formato da oltre tre mila scienziati: tanto per farmi capire chi fosse “la cosmetica” nel mondo! Un’altra famosa azienda canterana è stata l’IBM. Quando ho cominciato a lavorare, nel 1973, era un mito e chi entrava in quell’azienda sapeva già di essere destinato al successo.

Dopo una fase preliminare di training, prima a Rivoltella d’Adda poi a Novedrate, i giovani assunti dopo una selezione assai severa, erano avviati in tre direzioni: il settore commerciale, la produzione e i sistemi di programmazione, al resto pensava la corporate in Usa. In questo caso la professionalità si fondava sull’innovazione, un processo di cambiamento che all’inizio era posseduto solo da pochi colossi multinazionali – IBM, Honeywell, GE – e le aziende dipendevano totalmente da loro per innescare i propri processi di modernizzazione della gestione. IBM vendeva computer e sistemi ma soprattutto vendeva tecnologia, innovazione, cambiamento, efficienza: motivazioni fortissime per giovani laureati e manager ambiziosi. La carriera era molto ben tracciata per ciascuno poiché l’azienda cresceva continuamente e faceva un sacco di profitti, soprattutto in Italia. Se da L’Oreal, azienda globalizzata e proprietaria di un portafoglio di prodotti (n.34 brand globali) che inorgoglisce i suoi dipendenti, solo qualcuno se ne va per gestire un’altra azienda del settore, dall’IBM non se ne andava nessuno: era la potenza del nome e della reputazione, oltre che della busta paga! Conosco solo tre eccezioni, riferite a persone che l’hanno lasciata solo per entrare nell’azienda di famiglia: Paolo Fiocchi, Maurizio Russo in Elettroadda e Riccardo Raccosta in Fimma.

Il papa straniero

L’altra faccia della medaglia è rappresentata, invece, dalle aziende che scelgono l’allenatore esterno, quello che viene dalle squadre di club: il papa straniero

Anche in questo caso scelgo due esempi famosi: la Ferrari e ancora la Apple di Steve Jobs.

La Ferrari, squadra corse per intenderci, è stata guidata dal carisma del fondatore fino alla sua morte, poi ha valorizzato la cantera fino a quando i risultati sono stati positivi, con l’accoppiata Montezemolo-Schumacher. Ai primi e ripetuti insuccessi in F1, ossia la situazione più avversa per chi corre per vendere auto da sogno, è cominciata l’era che la politica definisce del “papa straniero”. Infatti, il team principal è cambiato molte volte: la scuderia ha ingaggiato ingegneri stravaganti (Ross Brawn), marketing manager del tabacco (Maurizio Arrivabene), canterani (Mattia Binotto) e un papa straniero (Frédéric Vasseur).

I risultati? Modesti e, in ogni caso, molto al di sotto delle aspettative…Una situazione che mi ricorda il ciclista Piero di Castello al quale, quando ero bambino, portavo la mia bicicletta da riparare e quando gli chiedevo quando fosse pronta, mi rispondeva ogni volta… duman.

Quando vincerà ancora la Ferrari? Nella prossima stagione!

L’altro esempio, virtuoso e riassuntivo di come non esista una ricetta precisa per scegliere il top management ed avere successo, ce lo offre il solito Steve Jobs con la sua storia che ho già descritto in un articolo precedente. Infatti, Steve Jobs e il suo socio tirano su l’azienda con il sistema della crescita per vie interne, come L’Oreal, poi il business cala e i risultati sono negativi: si chiama il marketing manager della Pepsi Cola, un cubano di cui non ricordo il nome e si cerca di stressare il change management con dosi di cambiamento massicce e del tutto nuove: il papa straniero non convince e, per scongiurare il secondo rischio di fallimento, viene richiamato Jobs: tutti sappiamo come è andata a finire. Ciò che voglio invece mettere in evidenza, ancora una volta, è l’inesistenza di ricette manageriali miracolistiche: il cambiamento è necessario per lo sviluppo ma va affrontato con molta intelligenza, a volte significa rischiare di più, altre cambiare radicalmente, altre ancora mantenere la tradizione.

A chi spetta questo compito? Agli imprenditori e ai manager, coloro che formano la cosiddetta governance. A che punto si trovano le imprese italiane a questo proposito? Un po’ indietro pur con molte eccezioni virtuose, ma questo è un altro tema sul quale tornare un’altra volta ancora con il confronto con il mondo dello sport.

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