«Record di occupati. Ma va analizzato bene cosa c’è dietro quel 62%»

L’intervista L’economista comasco e docente alla Luiss di Roma, Luciano Monti: «Il tema sono le ore lavorate, altrimenti si ignora la povertà lavorativa»

Ad aprile, con il 62,3%, l’Istat ha registrato un’ulteriore crescita dell’occupazione. Allo stesso tempo il tasso di disoccupazione è sceso al 6,9%. Il lavoro, in sostanza, corre, ma l’economista comasco Luciano Monti, coordinatore dell’Osservatorio delle Politiche Giovanili della Fondazione Bruno Visentini e docente di Politiche dell’Unione europea alla Luiss di Roma, invita alla prudenza e a una lettura più approfondita dei numeri.

Professor Monti, lei invita alla prudenza, quali elementi non vanno trascurati per una corretta valutazione?

Istat nel 2023 ha registrato un tasso di occupazione del 61,5%, il che significa circa 3 milioni di occupati. E il dato stato in ulteriore aumento sino all’ultimo, relativo al mese di aprile, pari al 62,3%. Ma, attenzione, la lettura dei numeri va fatta con particolare attenzione e con diverse lenti. La prima è la disparità fra Nord e Sud con la Lombardia che si trova naturalmente nella fascia più alta. Ci sono poi altri due ordini di problemi. All’interno del mercato del lavoro i giovani e le donne hanno tassi di occupazione molto più bassi; il dato nazionale per la disoccupazione giovanile è pari al 20,1%, notevolmente superiore al valore generale.

D’accordo, ma fatte queste premesse, perché non la convincono i titoli sull’occupazione record?

Il dato di maggiore interesse non è il tasso di occupazione, ma il numero delle ore lavorate, sia per i lavoratori dipendenti, sia quelle stimate per i lavoratori autonomi. È questo il vero metro di misura della nostra forza di lavoro attiva, quella cioè che sta producendo. Tornando a noi: è vero che in Italia abbiamo un incremento del tasso di occupazione, che comunque rimane molto al di sotto della media europea che supera il 70%, ma non è sufficiente considerare il numero di chi lavora, occorre conoscere le ore che queste persone fanno. Si scopre con il loro calo negli anni il sottobosco della povertà lavorativa o, con un’espressione più tecnica, della bassa intensità lavorativa.

Che cosa si intende precisamente con bassa intensità lavorativa?

Ci sono persone, in particolare giovani e donne che non sono occupate a tempo pieno, ma che fanno i cosiddetti lavoretti e che comunque sono considerate occupate. Misurare il numero degli occupati lascia un po’ il tempo che trova; ciò che conta sono le ore in cui i cittadini italiani producono. In più, aggiungo, conta anche il valore delle ore prodotte. In altri termini dovremmo domandarci: quanto vale l’ora lavorativa?

Cosa intende dire?

Purtroppo nel nostro Paese, a causa della carenza di investimenti nella ricerca e sviluppo e nell’innovazione, molti dei nostri settori producono con un basso valore aggiunto. È il caso ad esempio del settore agricolo o, nella manifattura, di alcune aree del settore tessile. Oppure prendiamo la filiera meccanica dove il valore della produzione oraria di un nostro operaio è notevolmente più basso rispetto a un collega tedesco impegnato su una linea con una più alta componente a livello di tecnologia.

L’aumento degli occupati non si accompagna alla crescita dei salari. Cosa si può fare?

Il tema non è certo alzare il salario per legge stabilendo ad esempio un salario minimo; si tratta piuttosto di alzare la produttività del nostro settore industriale. Sui servizi siamo più avanzati, non però sulla manifattura che peraltro è il nostro fiore all’occhiello perché siamo secondi in Europa, dietro solo alla Germania.

Cosa rende fragile la manifattura?

Investiamo poco nell’innovazione; poi non portiamo nel mercato del lavoro le risorse più giovani. Tendenzialmente il capitale umano giovane ha un valore intrinseco maggiore di quello di chi è più avanti negli anni perché ha una capacità di apprendimento superiore. In un momento come questo di transizione ecologica e digitale se noi lasciamo fuori dal mercato le risorse più brillanti, la nostra unità di lavoro non aumenta di valore.

Tornando ai giovani, cosa si può fare per farli salire a bordo?

Un’opportunità da non perdere è quella dell’introduzione della Valutazione dell’Impatto Generazionale, strumento che deriva dallo Youth Check dell’Unione Europea e di cui io mi sento un po’ il papà. In Italia a livello governativo si sta pensando di introdurlo, ma nei fatti ci sono già due città, Parma e Bologna, che l’hanno assunto con una delibera di giunta per promuovere l’equità intergenerazionale, considerando gli effetti ambientali, sociali ed economici sui giovani e sulle generazioni future.

È uno strumento che coinvolge solo i grandi capoluoghi di provincia?

Assolutamente no. Introdurre la Valutazione di Impatto Generazionale a livello comunale dimostra la sensibilità dell’amministrazione nell’intercettare le evidenti difficoltà affrontate dalle giovani generazioni di oggi rispetto alle generazioni precedenti nel raggiungimento di una piena autonomia economica e sociale. L’importanza di calare tale strumento a livello locale è rappresentata dal fatto che in questo modo, oltre a favorire un cambiamento culturale dal basso che porti a interrogarsi sul potenziale generazionale delle politiche che vengono messe in campo, si offre ai giovani del territorio la possibilità di partecipare attivamente al processo decisionale (cosiddetto Youth Empowerment) ed aiutare di conseguenza la stessa amministrazione a fronteggiare i problemi dei giovani con i loro stessi occhi.

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