In Giappone, si sa, il gatto è sacro. Nessun altro Paese può dirsi più devoto a uno specifico animale domestico. Il gatto (“neko” in giapponese) si adatta perfettamente al tratto psicologico nazionale e rappresenta senza sforzo la spiritualità orientale: mistero, naturalezza, perfino quel tanto di indifferenza.
La sua bellezza, poi, pare studiata apposta per elettrizzare i giapponesi. In carne e pelo, i felini sono il modello iperuranico dell’aggettivo “kawaii”, che a scelta può essere tradotto con “adorabile”, “grazioso”, “carino”.
Il gatto, in Giappone, è dunque tenuto in considerazione altissima. Non solo, esso è eletto a ispirazione per personaggi di manga e film d’animazione, opere nelle quali le proprietà feline vengono immancabilmente accostate a magia e taumaturgia. Inutile dire che il gatto è padrone anche di larga parte della letteratura giapponese.
Le sue zampette già passeggiano nelle pagine del venerando “Racconto di Genij”, scritto nel XI secolo dalla dama di corte Murasaki Shikibu, ma l’esempio fondamentale più vicino a noi è il “neko” senza nome del meraviglioso romanzo “Io sono un gatto” di Natsume Soseki, pubblicato nel 1905. Di gatti è poi piena la letteratura giapponese contemporanea, a partire dai libri di Haruki Murakami. Una presenza talmente estesa da aver ispirato alla giornalista Fabiola Palmieri, esperta di cose orientali, il godibile libretto “A ogni gatto il suo autore. Gatti e scrittori nel Giappone contemporaneo”.
Tanta adorazione presupporrebbe dunque che il gatto giapponese goda di un trattamento speciale, oseremmo dire imperiale. Eppure, se osserviamo bene, il posto di assoluto rilievo che i felini occupano nel cuore dei giapponesi, l’affetto e l’attaccamento che tanti, giovani o anziani che siano, dimostrano nei confronti dei loro “neko”, non giunge al punto di confondere i ruoli nelle famiglie o di rivoluzionare la gerarchia tra gatto e padrone del medesimo.È ben vero che chiunque “possieda” un gatto finisce, in Giappone come in Europa, per scoprirsi “servo” di quest’ultimo, ma è proprio la differenza tra uomo e animale che, come i giapponesi sanno bene, costituisce il valore supremo della convivenza la quale, per i bipedi, è fonte di ispirazione e arricchimento, nonché occasione per imparare qualcosa sul senso della vita.
Tutt’altra cosa è cancellare la differenza tra noi e i nostri animali domestici, cosa che invece pare stia inesorabilmente accadendo.
In un recente sondaggio condotto tra padroni di cani il 43% degli intervistati ha dichiarato che non darebbe mai da mangiare all’animale qualcosa che lui stesso non mangerebbe. Addirittura, in caso di malessere fisico, il padrone del cane sarebbe disposto ad attendere otto giorni prima di vedere un medico, ma se a dar segni di malessere è il quattrozampe, un’attesa di tre giorni prima della visita dal veterinario gli risulta intollerabile.
Qui, ciò che a prima vista sembra altruismo e generosità, a un esame più attento si rivela per una forma d’amore affetta da malinteso: la perdita dei ruoli non è buona cosa né per gli umani né per i cani e i gatti, chiamati a sostenere un ruolo che non appartiene loro e che in molti casi fa sospettare, nei bipedi, una forma di sublimazione, se non proprio di sostituzione psicologica.
“Vita da cani” è stata a lungo un’espressione designata a identificare un’esistenza infelice e trascurata: giusto che oggi si faccia del nostro meglio per elevarla, ma se pretendiamo che il cane sieda con noi al ristorante e con noi faccia scorrere il menu siamo sulla strada sbagliata. La vita da uomo gli si attaglia ancora meno della vita da cane.
© RIPRODUZIONE RISERVATA