A forza di andare a destra, poi si finisce con il ritrovarsi a sinistra. Una delle notizie più penose della settimana riguarda la polemica scatenata da alcuni cervelloni della nuova destra contro lo sconosciuto romanzo di un’altrettanto sconosciuta (fino a ieri) scrittrice in gara per il premio Strega e dedicato alla strage di Acca Larentia: “Dalla stessa parte mi troverai” di Valentina Mira.
Il racconto dell’assassinio alla fine degli anni Settanta di due giovani missini all’uscita della sezione del partito in un quartiere di Roma ha portato alcuni esponenti politici di rilievo di Fratelli d’Italia a stroncare il testo, colpevole di una ricostruzione falsa e diffamatoria che vilipende i ragazzi uccisi e figlio del consolidato e intollerabile sentimento di superiorità antropologica della sinistra nei confronti della destra, che la porta ad assegnare un valore superiore alla vita degli uni rispetto a quella degli altri.
Premessa metodologica. Praticamente nessuno ha letto il libro - compreso chi scrive questo pezzo - ma già il fatto che concorra per lo Strega è un marchio di garanzia. Cioè o è una porcata sesquipedale oppure è la solita ridicola sceneggiatura già bella e pronta per diventare un’altrettanto ridicola fiction di Raiuno (quelle che quando le confronti con le produzioni di Sky o Netflix ridi per due giorni) oppure è il consueto temino conformista, perbenista, tartufista strabordante di banalità e luoghi comuni, di gruppettarismo fuori tempo massimo e con un italiano da sciuretta che gioca a fare l’intellettuale. Lo conosciamo fin troppo bene l’amichettismo “de sinistra” che detta legge nei cosiddetti premi letterari, che non sono altro che l’occasione per leccarsi a vicenda – ho visto lui che premia lei che premia lui che premia me – per farci prendere per il naso dall’ennesimo martire della libera letteratura democratica e antifascista contro il nuovo regime che già avanza verso la cittadella delle patrie lettere e bla bla bla. D’altra parte, quando un premio, come vincitore, passa da Flaiano a Desiati e Cognetti è meglio che si sotterri.
Il tema non è questo. Il tema non è il valore dell’opera, che sarà pessima oppure no, anche se è bastato dare un occhio all’autrice a “Otto e mezzo” su La7 mentre tutta indignata straparlava sull’universo mondo per farla somigliare in modo inquietante a una Vannacci di sinistra. Il tema è che questo romanzo - come tutti i romanzi - è insindacabile. È qui che la sedicente nuova destra passa clamorosamente dalla ragione al torto. Nessuno, ma davvero nessuno, dalla Meloni all’ultimo dei traffichini di sezione, può permettersi di sindacare un romanzo. Anche se è un romanzo storico. Anche se è un romanzo che parla di eventi realmente accaduti. Perché all’interno della formula romanzo tutto è inventabile, tutto è riscrivibile, tutto è camuffabile, tutto è stravolgibile. Non esiste alcun obbligo di aderenza alla realtà, nessun senso di opportunità, nessun rigore ricostruttivo di questo o di quello, che invece è la base per un saggio storico, economico o sociologico. Questo è l’abc della critica letteraria o d’arte in genere, una cosa che sanno tutti, ma proprio tutti. Fuorché i cervelloni della nuova destra di cui sopra.
Che finiscono, forse accecati dall’ebbrezza del potere o forse dal desolante livello culturale che contraddistingue i gruppi dirigenti passati troppo velocemente dalla cantina alla stanza dei bottoni, per prendere tutti i peggiori vizi dei cervelloni di sinistra, che per mezzo secolo ci hanno fatto la lezione con il ditino alzato dal loro pulpito benedetto dal paracleto. E che consisteva nel giudicare l’opera d’arte a prescindere dal suo valore intrinseco, autonomo e non codificabile, ma solo e soltanto a seconda della sua aderenza alla vulgata politica dell’epoca. E il fatto che una volta questa opera di “censura preventiva” venisse operata da Calvino e Vittorini e oggi a sinistra dagli scappati di casa del Pd e a destra da Foti e Rampelli fa venire il buonumore, ma in quanto a metodo è la stessa identica cosa. Era sbagliato prima e rimane sbagliato adesso.
Ma come, la destra ha passato i decenni a denunciare l’emarginazione da parte della cultura ufficiale di un titano come Céline in quanto contrario e opposto alla letteratura di sinistra, che ha usato il suo collaborazionismo per impedirne la lettura, e ai censori e ai cretini di sinistra ha sempre ricordato che nonostante fosse antisemita - “Bagatelle per un massacro” è un testo di una violenza inaudita - resta per distacco il più grande scrittore del Novecento - “Viaggio al termine della notte” è “il” romanzo del Novecento - e adesso pretende che i romanzi, belli o brutti che siano, scrivano la storia come vuole lei? La destra ha passato la vita a tentare di diffondere la grandezza di autori come Malraux, Morand, La Rochelle, Mishima, Junger, Tolkien - e in patria Eugenio Corti - finiti nel libro nero dell’editoria italiana perché rappresentanti di culture diverse, nelle quali fiammeggiavano i demoni del secolo breve, perché nessuno poteva superare la censura ferrea del Pci e delle sue guardie rosse sparpagliate dentro tutti gli editori più importanti, e adesso si comporta alla stessa maniera? Senza avere oltretutto manco un centesimo della competenza di quegli altri? Che pena, ragazzi.
La Rimini di Fellini non è mai esistita, è bugia, frottola, cartapesta. La morte di Hitler in Tarantino è grottesco, iperbole, splatter. La realtà nei racconti di Borges è finzione, specchio ingannatore, labirinto. E per Nabokov va sempre messa tra virgolette, perché è sostanzialmente invenzione. L’opera d’arte è autonoma. Non deve sottostare a limitazioni di oggetto e di soggetto. Vive di sé. Lo scriveva in una pagina memorabile Benedetto Croce, che naturalmente, in questo meraviglioso paese di scrittori di serie B (che vincono lo Strega), di intellettuali di serie C e di politici di serie D, nessuno ha letto, né a destra né a sinistra.
Avvisate Lollobrigida, per cortesia.
@DiegoMinonzio
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