Nel passaggio chiave de “L’Immortale”, clamoroso racconto di apertura dell’arduo capolavoro “L’Aleph”, Jorge Luis Borges scolpisce nella pietra parole definitive sulla condizione umana: «La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto di un sogno».
È proprio così. A un certo momento le persone spariscono. O perché muoiono. O perché diventano qualcos’altro da quello che erano sempre state. E di quello che c’era prima non rimane nulla o quasi nulla. Nei giorni scorsi, mentre eravamo tutti impegnati a sguazzare nella consueta melma informativa nazionale - la glorificazione dell’eroico Comandate Che Sinwar, le fanfare per il ridicolo trasferimento di quattro scappati di casa in Albania e ritorno, gli insulti da osteria tra maggioranza e opposizione dopo il varo della finanziaria - è passata praticamente sotto silenzio una fotografia terribile e straziante. L’immagine ritrae due celebri star di Hollywood, Demi Moore e Bruce Willis, sedute su un divano mentre, mani nelle mani, si scrutano negli occhi. Lei lo guarda fissa, attenta e contratta. Anche lui la guarda, ma non la vede. Chissà cosa vede, visto che due anni fa gli è stata diagnosticata una grave patologia neurodegenerativa: la demenza frontotemporale.
L’attrice ha parlato del suo rapporto con l’ex marito, con il quale ha avuto tre figlie, in occasione di un premio alla carriera ricevuto di recente a New York, e ha confessato con grande realismo e rassegnazione che la situazione è stabile, ma irreversibile, che la malattia è ciò che è e la si deve accettare profondamente e ha anche aggiunto parole di grandissima intensità: «Quello che incoraggio sempre a fare è semplicemente incontrarli dove sono. Quando ti aggrappi al passato, a ciò che è stato, è una battaglia persa, ma quando invece accetti lo stato attuale, si scoprono una grande bellezza e dolcezza».
Che coraggio. Che invidia. Quanta forza ci deve essere nel riuscire ad acconsentire a questo passaggio che per tanti di noi - molti lettori hanno di certo già subìto questo trauma, tanti lo stanno subendo ora, tanti purtroppo lo subiranno in futuro - e sono ben pochi quelli che ce la fanno ad accettare la “fine” di una vita, la fine di una presenza, la fine di quell’uomo lì o di quella donna lì, padre, madre, fratello o figlio che sia. La sua fine per sempre, perché quello che ci sarà dopo, dopo l’ictus, l’aneurisma, l’Alzheimer e tutti gli altri tipi di queste patologie - solo in Italia sono 40mila e secondo i più recenti studi medici triplicheranno nel 2050 - non sarà più lui, non sarà più lei. Lo sarà ancora, certo, ma di fatto non lo sarà più. Quella persona, quella persona che abbiamo così ben conosciuto e così tanto amato, ma anche odiato, che in fondo è un sentimento molto più forte dell’amore e lascia strascichi molto più sanguinosi, è finita per sempre. Ora ce n’è un’altra. E più passa il tempo - un anno, tre anni, dieci anni, vent’anni – più la vecchia lei o il vecchio lui sono destinati a svaporare, a sparire, a svanire tra le pieghe del tempo. Come se non fossero mai esistiti.
Quanto è dura accettare la perdita di una presenza, di quella presenza lì, che aveva contato tutto per te, quanto è gravoso, quanto è ingiusto. Un peso insostenibile, un peso insopportabile, uno sforzo disumano per dare l’addio a quello che era certo e sicuro e consolidato, per dover parlare a un padre o a una madre come si parla a un bambino, quanto è devastante guardare quegli occhi vuoti, quegli sguardi lattiginosi, quella assoluta indifferenza, quella irritante atarassia sperduta chissà dove. Cosa vedono mentre ti guardano? A cosa pensano? Gli importa ancora di noi? Dove vanno con la mente? In che mondo vivono? E poi, dove si va, dopo? Dove? Dov’è che si va? E soprattutto, perché? Questa non è una fiction, non è il lacrimevole feuilleton stile anche i ricchi piangono, questa è la durissima realtà. Noi esseri umani siamo tutti affratellati sotto lo scacco di una fatalità del genere. Potrebbe capitare, e certo a più di uno è capitato o capiterà, che qualcuno vicino a noi non ci riconoscerà più o noi non riconosceremo lui, o lei. E non è detto che sia una cosa solo per grandi anziani, guardate Bruce Willis, ad esempio. In quel buco nero potremmo cadere pure noi, fra un attimo, proprio come diceva Proust: «La morte potrebbe venire a prenderti questo pomeriggio».
Quanto poco rimane degli esseri umani, una volta passato il limite, quanto sono destinati tutti quanti a scivolare nel nulla e quanto dovremmo essere migliori noi, nel rendercene conto, nel dare il giusto peso alle cose e quanto dovremmo essere tutti così coraggiosi come questa bella attrice americana nel riuscire a restare disperatamente aggrappati a quel moncone di uomo, a quel fantasma di uomo, a quel relitto di uomo che era una volta suo marito. Ce la fanno in pochi, questa è la verità. Molto spesso il primo istinto è rifiutare la nuova condizione – quello lì non è mio padre! quella lì non è mia madre! - non accettarla, maledirla e fuggirla. La fuga dal dolore è la soluzione più innata, quella più vigliacca, certo, ma anche quella più umana e quanti di noi l’hanno già sperimentata sulla propria pelle. Preferisco ricordarla com’era, non si dice così? Supremo egoismo, supremo rifiuto della realtà o forse più correttamente la reazione emotiva a un dolore troppo grande per essere elaborato razionalmente.
Aveva ragione Borges, nella sua perfezione disarmante. Gli uomini commuovono per la loro condizione di fantasmi. Basta un’onda del destino e non ne rimane nulla. Forse è il caso di ricordarselo la prossima volta che ci illudiamo, con la nostra vanagloria da borghesucci da quattro soldi, di essere immortali e indispensabili. Al mondo non c’è nessuno di indispensabile. Nessuno. I cimiteri sono pieni di gente indispensabile.
© RIPRODUZIONE RISERVATA