Visto che siamo pur sempre il paese di Fellini, basta rivedere il suo capolavoro assoluto, “Amarcord” - ritratto inarrivabile non solo della giovinezza del grande regista, dei nostri anni Trenta, di un ambiente fisico-onirico, ma anche e soprattutto della antropologia dell’eterna Italietta ignorante, stracciona, provinciale, farisea e tutta avvoltolata nella sua ragnatela di pregiudizi - per capire perfettamente le cose di oggi.
E tra le tante sequenze formidabili del film, ce n’è una in particolare che è passata alla storia del cinema: quella dell’interrogatorio del padre del protagonista nella caserma dei fascisti. Difficile descriverla. Bisogna vederla (è facilmente reperibile su YouTube). Il presepe del regime è ritratto in tutte le sue componenti: il picchiatore toscano sarcastico e bestemmiatore, l’emiliano manesco e irridente, espressione della componente agraria del partito, il gerarca cittadino e intellettuale che declama i nobili principi della rivoluzione mussoliniana, quello napoletano, metafora della seconda ondata clientelare sudista, che non si capacita del fatto che gli italiani si ostinino a non voler capire. E poi baffi a manubrio, ciuffi impomatati, labari, sedie a rotelle, retorica sulle gesta dei Cesari, aquile romane, reni spezzate, stivaloni, fez, bicchieri di olio di ricino. Un quadro spassosissimo, iperbolico, grottesco, talmente simbolico da confermarci nella convinzione che se qualcuno vuole capire tutto delle camicie nere deve fare queste tre cose fondamentali: leggere “Nascita e avvento del fascismo” di Angelo Tasca, leggere la biografia di Mussolini di Renzo De Felice, vedere “Amarcord”. Tutto il resto è secondario.
E all’apice dell’interrogatorio al sospetto anarchico viene chiesto: “Dici che non ti occupi di politica. E allora perché ti hanno sentito dire questa frase ‘Se Mussolini va avanti così, io non lo so…’? Cosa intendevi dire con ‘Io non lo so…’? E’ una minaccia? Sfiducia nel fascismo? Propaganda sovversiva?”. E su questa accusa anonima, senza prove, senza testimoni, il malcapitato viene inchiodato - e purgato - alla sua insindacabile colpevolezza. La sequenza è irresistibile, divertentissima, ma al contempo drammatica - qui la grandezza del regista - perché non si ferma alla semplice e ideologica denuncia delle malefatte della dittatura, della violenza, della soppressione della libertà eccetera, non era quello il suo taglio interpretativo, la sua analisi della realtà, la sua visione del mondo. A lui interessava invece dare evidenza a questo impulso connaturato agli esseri umani di additare colpe e responsabilità agli altri senza alcuna verifica dei fatti, ma solo sul sentito dire, sulla percezione epidermica, sulla maldicenza da osteria, da retrobottega, da lavanderia. Un peccato originale degli uomini molto più profondo e molto più duraturo del fascismo, naturalmente.
Ed è proprio per questo che, con tutta probabilità, la gherminella di Salvini al citofono sarebbe molto piaciuta al maestro. Perché in questa cialtronata figlia degli anni Venti del nuovo secolo avrebbe rivisto la stessa identica impronta di quella da lui ideata per gli anni Trenta di quello vecchio. Ma attenzione. Qui il fascismo non c’entra niente - chiunque accusi Salvini di fascismo si copre di ridicolo -: c’entra invece, e molto, la pasta di cui sono fatti gli uomini e, soprattutto, la pasta flaccida di cui sono fatti gli italiani. È quindi del tutto fuori posto l’indignazione degli indignati in servizio permanente effettivo della sinistra, perché se riguardiamo la loro storia hanno ben poco da impartire lezioni sulla privacy, sul rispetto degli altri e sulle garanzie costituzionali. Ce li ricordiamo fin troppo bene, infatti, gli autorevolissimi giornali di sinistra e gli ancor più autorevoli consessi di sinistra degli anni Settanta nei quali venivano scientificamente segnalati gli indirizzi e i posti di lavoro dei nemici del popolo, al fine di additarli al pubblico ludibrio delle masse rivoluzionarie. Perché Salvini, al limite, a raffica spara solo le cazzate. Quelli là invece, le raffiche le sparavano con i mitragliatori.
Per non parlare dell’altra celeberrima rivoluzione di sinistra che è stata Tangentopoli, durante la quale bastava che qualcuno insinuasse di aver sentito qualcun altro dire “Se Di Pietro va avanti così, io non lo so…” per ritrovarsi imputato, magari farsi pure un pezzo di galera e poi venire regolarmente archiviato o assolto, che tanto vita e carriera erano state distrutte per sempre. Effetti collaterali.
Non c’è nessuno che possa dare lezioni su questa vicenda, né a destra né a sinistra. La politica, con tutte le sue avvilenti porcherie, c’entra poco. C’entra invece molto un paese che ha sempre detestato e ghettizzato e diffamato il concetto di individuo e il principio di responsabilità individuale a favore della massa, del gregge, della gente, del cosiddetto popolo, che dicono tutti sia una cosa bella e che invece bella non lo è per niente. Quando Salvini, in un siparietto di rara meschinità, si permette di mettere alla berlina un tale con la frase “Dicono che lei e suo figlio spacciate” per poi motteggiare con le sue salmerie di giornalisti servi al seguito, non fa altro che perpetuare una cultura profondissima e tutta italiana secondo la quale la singola persona non vale niente, il credo comune è verità e la chiacchiera da bar diventa comandamento biblico. Comandamento citofonabile all’infinito: “Arbitro Ceccarini, dicono che lei abbia preso la stecca da Moggi per non dare il rigore su Ronaldo!”, “Mia Martini, dicono che lei portasse sfiga!”. “Presidente Berlusconi, dicono che lei sia un affiliato di Cosa Nostra!”, “Papa Bergoglio, dicono che lei sia ateo!”, “Segretario Salvini, dicono che la Lega abbia rubato 49 milioni!”…
Nessuna prova. Nessun dubbio. Liberali e garantisti non pervenuti. Solo chiacchiere e distintivi. Vale tutto nel paese di Fellini. E allora spegniamo le luci, che lo spettacolo va a continuare.
@DiegoMinonzio
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