Pietro Nenni, storico leader del Partito Socialista, diceva che «Un puro trova sempre uno più puro che lo epura». Nel caso della saga del Movimento Cinque Stelle, viene da chiedersi se, questa volta, non sia stato il meno puro a epurare il puro. Tutto questo avviene nel contesto di una forza che, nata per essere alfiere dell’antipolitica per eccellenza, ha finito per accucciarsi, sotto la guida di Giuseppe Conte, l’”avvocato del popolo”, tra le braccia del “mostro” sistema. Un percorso culminato con il “parricidio” ai danni di Beppe Grillo, il comico prestato alla politica e ora, forse, restituito al mittente, salvo eventuali e non improbabili colpi di coda.
Oltre al fondatore, l’assemblea pentastellata ha mandato in soffitta anche il limite di due mandati per i parlamentari, un segnale inequivocabile di attaccamento a potere e poltrone. E pazienza se il Parlamento ha resistito al tentativo di aprirlo come una scatoletta di tonno. Viene da chiedersi se, oggi, il Movimento proporrebbe ancora il dimezzamento dei seggi alla Camera e al Senato, una delle sue battaglie riuscite, accanto a quella del bonus 110%, i cui effetti stiamo pagando pesantemente anche nella manovra di governo.
Se la vediamo in questa prospettiva, forse non è un male che il meno puro abbia divorato il purissimo patriarca del “vaffa day”, storicamente refrattario a qualunque alleanza. Eppure, una volta ottenuta la vittoria elettorale del 2018 — che rischiava di restare senza valore — il “patriarca” aveva accettato il compromesso del “contratto di governo” con la Lega di Matteo Salvini. Fu in quell’occasione che emersero le doti camaleontiche di Giuseppe Conte, scelto come punto di equilibrio tra l’impossibilità di piazzare a Palazzo Chigi né Salvini, né Luigi Di Maio (che passerà alla storia per il famoso proclama sulla “sconfitta della povertà” — almeno ha evitato la sorte di Cola di Rienzo, anzi…).
“Giuseppi”, così ribattezzato da Donald Trump durante la sua prima visita alla Casa Bianca, sembrava la classica “testa di legno” messa lì per vidimare i desiderata dei due dioscuri gialloverdi. Tuttavia, dopo il tentativo di Salvini di ottenere i “pieni poteri”, era emersa un’altra immagine di Conte. Il “leguleio pugliese”, supportato da Rocco Casalino, aveva deciso di cambiare strategia per passare dall’alleanza con la Lega a quella con il Partito Democratico, dimostrando capacità di scaltrezza politica. Tuttavia, Matteo Renzi lo aveva scalzato, spingendo Grillo a indurlo non solo a lasciare il posto a Draghi, ma anche a sostenerlo, per poi abbandonarlo al suo destino.
Conseguite le due grandi vittorie — taglio dei parlamentari e bonus 110% — per il Movimento nulla è stato più come prima. Il consenso ha cominciato a calare vistosamente e anche il ruolo di Beppe Grillo è diventato sempre più marginale. Da garante e “consulente della comunicazione” ben retribuito, Grillo si è reso sempre più evanescente. Nel frattempo, le fibrillazioni interne per il cosiddetto “campo largo” e la volontà di Conte di non lasciare la strada libera a Elly Schlein per una futura presidenza del Consiglio hanno delineatp un quadro di crescente incertezza. La nostalgia di Palazzo Chigi ha accompagnato Conte fin dall’inizio, ma ora, con i contraccolpi della defenestrazione del fondatore, la prospettiva di tornare al vertice del governo sembra davvero remota.
Che cosa si inventerà ora l’ex premerie? Forse, più per necessità che per convinzione, potrebbe lanciare un nuovo partito con un altro simbolo. La prossima contesa sarà proprio questa: la disputa sul nome e sul simbolo del Movimento, che Grillo ritiene essere di sua esclusiva proprietà. Di sicuro, nel cielo del Movimento Cinque Stelle, vedremo ben più di cinque stelle brillare, ma stavolta potrebbero essere scintille di una battaglia tutta interna.
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