Quando uno se ne esce con “serve discontinuità nell’azione di governo”, capisci che è il momento di tirar fuori le carte da briscola e ordinare mezzo litro, ma di quello buono eh. Se poi il pompiere è il capo dei furono incendiari Cinque Stelle, allora ti immagini Aldo Moro che da lassù si lascia scappare un sorrisetto. Dai che tra un po’ arriveranno anche alle “convergenze parallele” e al “governo della non sfiducia”. Peccato che questi, gli eroi del Movimento Cinque Stelle sarebbero gli stessi che dopo essersi fatti largo nell’elettorato a colpi di “vaffa”, aver annunciato la sconfitta della povertà (poi peraltro l’autore della sortita se n’è andato) e l’intenzione di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno siano trascolorati in una pattuglia di tengo famiglia e soprattutto tengo poltrona. Alti ideali per cui vale la pena di rimandare per l’ennesima volta la rivoluzione che tanto minaccia pioggia. Il bello è che, almeno stando ai sondaggi, c’è ancora chi pensa di votarli i pentastellati, molto meno di prima, ma comunque al mercato elettorale valgono ancora circa l’11 per cento.
Curiosa la storia di questi pifferi da montagna del terzo millennio. Erano contro i partiti e si sono tirati dentro tutte le stimmate della partitocrazia: le correnti, l’autoreferenzialità, l’occupazione tenace del potere e delle poltrone. Da lì, dai loro posti di ministri, vice ministri, sottosegretari e parlamentari semplici sono lì a dire a Draghi “a coso, dacce la discontinuità”. Magari non tutti, va detto. Perché altrimenti ci sarebbe da chiedersi a cosa sia servita la scissione di Giggino Di Maio, magari per distinguere tra “draghiani tout court” e “governisti un tanto al chilo”? Qualcuno insomma dice che da questo esecutivo che strizza di continuo l’occhio ai poteri forti sarebbe ora di uscire. Su tutti Di Battista che però ormai è una sorta di icona di se stesso, un Che Gueavara rimasto in sedicesimi. Che bravo il “Dibba” dicono tutti per poi chiosare con un ciao “Dibba”, mandace una cartolina che noi stiamo qui belli comodi sui nostri scranni.
Se ci pensate, il Movimento, in questa legislatura, porta a casa il record di aver fatto parte di tutti i tre governi tre che si sono finora susseguiti. Prima si sono alleati con la Lega, poi con il Pd e alla fine con tutte i due. E due di questi esecutivi li ha guidati proprio quel “Giuseppi” Conte che ieri si è presentato da Mario Draghi con la discontinuità in una mano, mentre l’altra era tenuta sul cuore. Lasciare il governo? Non sia mai. Ma almeno tentiamo di salvare la faccia. Vano intento, verrebbe da dire, ma tanto fa. La verità è che il movimento è riuscito persino a dar torto a Giulio Andreotti e a farsi logorare dal potere cercando però di tenerselo bello stretto. Alla fine i Cinque Stelle sono diventati una sorta di Pd, ma ancora più litigioso e autoreferenziale. È chiaro che l’elettore tra la brutta copia e l’originale sceglie il secondo. E questo spiega l’emorragia di consensi che, peraltro, essendo i pentastellati un movimento “pigliatutto” ha favorito anche il centrodestra, magari i FdI di Giorgia Meloni.
Insomma, come i Masianello e i Savonarola, i post grillini sono destinati ormai a diventare storia dopo aver beneficiato di un rutilante quarto d’ora di centralità. E adesso avanti i prossimi incendiari, gli lasciano il posto loro, come avrebbe più o meno cantato un Riccardo Cocciante tradito. Come i tanti che avevano sperato che i Cinque Stelle portassero davvero il cambiamento e non solo d’abito: da descamisati a manichini in grisaglia.
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