D’accordo, la seconda ondata della pandemia rappresenta un incubo spaventoso, la recessione economica mette a rischio i nostri stipendi, la guerra fredda tra Stati Uniti e Cina prepara per noi europei decenni di subalternità, irrilevanza e vassallaggio. Non si può che essere disperati. Ma, insomma, nella vita c’è pure di peggio. Mai stati a cena con un giornalista specializzato in coccodrilli?
Il soggetto in questione, facilmente identificabile per l’occhiuta prosopopea, la macchia di ragù sulla cravatta e l’innata tendenza a distrarsi all’arrivo del conto, è un personaggio che poteva germogliare solo in una categoria meravigliosa come la nostra. Sempre in pista, implacabile nel breve, non sbaglia un colpo: sembra Hugo Sánchez o Gerd Müller in area di rigore. Ogni morto, un golazo.
L’ultima riprova proprio in questi giorni, segnati dalla scomparsa di un maestro del giornalismo come Sergio Zavoli, un vero gigante dell’inchiesta, capace di realizzare prodotti radiofonici e televisivi di altissima qualità, spaziando dallo sport al costume, dalla cronaca al dibattito politico. Chi ha visto almeno qualche puntata de “La notte della Repubblica” e quindi qualche faccia a faccia con i leader del terrorismo - quella a Mario Moretti è probabilmente la migliore intervista della storia della televisione italiana - avrà avuto modo di confrontare la preparazione, lo spessore, il rigore, lo scavo formidabile della notizia con la sciatteria, il servilismo, la cialtronaggine che ingorga gli svariati talk show stracciaculi delle recenti stagioni televisive, spurganti di gente che sbraita, gente che suda, gente che lecca i piedi, gente che straparla di cose che non conosce, e avrà così avuto modo di capire a che punto di degrado è arrivata la nostra professione. Ma questo è un discorso da vecchi barbogi frustrati. Meglio lasciar perdere.
Bene, il povero Zavoli non ha fatto in tempo a lasciare questa terra che è partito il circo Orfei. Che si muove seguendo uno schema fisso, coerente, adamantino. Il grande notista o il grande analista o il grande inviato-editorialista, insomma il principe dei coccodrilli - nel gergo giornalistico, il coccodrillo è l’articolo commemorativo, già confezionato, sulla vita di una persona nota - dei cosiddetti giornaloni apprende la notizia della scomparsa dell’autorevole personaggio e inizia quindi a vergare un memorabile ritratto dell’autorevole personaggio e quanto era in gamba e quanto era capace e quanto era sagace e quanto era pugnace e quanto ora nulla sarà più come prima e quanto abbia lasciato un vuoto incolmabile e quanto il principe dei coccodrilli fosse in confidenza con lui e quanto si fossero scambiati commenti e analisi e confidenze e quanto avessero mangiato il pane duro della gavetta consumando le suole delle scarpe e fumando sigarette e bevendo Calvados nelle peggio stamberghe della Normandia o della Mitteleuropa, con il loro impermeabile spiegazzato e il cappello sulle ventitré, perché questa era la stampa dei tempi d’oro, bellezza, e neppure Bernabei poteva farci niente.
E loro, il principe dei coccodrilli e l’autorevole personaggio, discettavano sul Fattore K, investigavano sulla crisi di Cuba, sospiravano rileggendo il tragico amore tra Natasa e il principe Bolkonskij, intervistavano Picasso, interloquivano con De Gaulle, incalzavano Merckx in lacrime dopo il doping al Giro d’Italia, facevano la posta alla Magnani e mille altre avventure di letteratura, di cultura, di facezie e di sciali di vita che non basterebbe un romanzo alla Scott Fitzgerald per raccontarli.
Solo che, via via che il coccodrillo scorre sotto gli occhi del lettore, non si sa come mai, il ruolo del notevole personaggio testé deceduto inizia piano piano a rimpicciolirsi, a sfumare, a stingere, ad evaporare, a sbiadire sullo sfondo mentre, in contemporanea, quello del principe dei coccodrilli inizia ad ergersi, a gonfiarsi, ad allargarsi, a incombere come una mongolfiera sul pratone dell’atterraggio, perché insomma, va bene che quello importante è quello che è morto, ma vorrei far notare a tutti voi italiani distratti che quello che scrive non è meno importante di quello che è morto e di certo nulla gli deve invidiare in quanto a intelligenza, possanza ed eleganza. E così, con una progressione inesorabile come la Colpa in un racconto di Kafka, l’articolo, che era partito per illustrare al malcapitato lettore tutte le belle cose fatte da Zavoli (o chi per lui: Papa Wojtyla, Carlos Monzon, Zeno Colò, Judy Garland, Moana Pozzi, fate voi…) nella sua lunga e bella vita, finisce invece per parlare di quello che scrive di Zavoli e della sua lunga e bella vita e quindi non lui, ma io e io e io e io ancora, io che avevo portato Zavoli a fare quella famosa gita a Chiasso e io che avevo introdotto Zavoli in quella rivista letteraria corsara dove scovammo e coraggiosamente lanciammo - soprattutto io, un po’ meno lui - quei nuovi talenti della narrativa, del giornalismo e della saggistica e io che avevo spiegato a Zavoli come allestire “Il processo alla tappa” e io che avevo segnalato a Zavoli tutti i consulenti per “Nascita di una dittatura” e via così, spietato, in un crescendo rossiniano dove alla fine l’incolpevole Zavoli diventa l’intruso e il nostro straordinario, ineguagliabile, inimitabile - e quindi autorevolissimo - trombone il protagonista assoluto. Tutto vero. Finisce sempre così.
E la cosa ancor più stupefacente è che ognuno delle dozzine di principi dei coccodrilli dei vari giornali, radio e televisioni esibisce una patente di amicizia esclusiva e profondissima con il grande maestro Zavoli e quindi, a un certo punto, ti viene da pensare, con una punta di invidia, a quanti amici veri avesse, ma soprattutto che tu che stai leggendo quel coccodrillo, per quanto autorevole direttore dell’autorevole quotidiano cittadino, sia sostanzialmente l’unico della categoria a non aver mai intessuto legami di preziosa relazione amicale con Zavoli. Secondo voi, perché?
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