E così ci siamo. Oggi, con una partita inaugurale di altissimo livello che promette brividi ed emozioni tra Ecuador e Qatar, iniziano i campionati mondiali di calcio più importanti della storia.
Non tanto perché si svolgono per la prima volta in pieno inverno, spezzando e probabilmente falsando i campionati nazionali e le coppe europee. E nemmeno perché si tengono in un paese privo di qualsiasi cultura calcistica, dove nessuno gioca a pallone e nessuno sa cosa sia un pallone. E neanche perché lo Stato organizzatore non è una democrazia, visto che ci sono illustri precedenti, basti pensare ai mondiali d’Italia del 1934 (Mussolini ha fatto anche cose buone…) e a quelli di Argentina del 1978, con i suoi colonnelli sanguinari e tagliagole.
Niente di tutto questo. La vera storicità dell’evento più atteso dai tifosi medi italioti, anche se pure stavolta la nostra nazionale non c’è, consiste nella certificazione della fine del calcio come lo abbiamo sempre conosciuto e lo sbocciare di un nuovo calcio che con quello di prima ha ben poco a che fare e ne avrà sempre meno con il passare degli anni. Inizia lo spettacolo, finisce lo sport. E’ proprio questo che sta accadendo. La trasformazione di uno sport - che oltretutto non è neppure solo quello, ma qualcosa di molto più profondo - in uno show, dove l’agenda non viene dettata dal livello agonistico, tecnico, tattico, ma soprattutto sociale, antropologico, esistenziale, in un mero business come tanti altri. Intrattenimento, esibizione, tempo libero. Un modello planetario sul quale investire montagne di soldi e sul quale intervenire nel profondo per renderlo compatibile, connesso, osmotico con il gioco virtuale, quello da “console”. Insomma, per trasformarlo nel circo globale del nuovo millennio, una specie di wrestling all’europea.
Bene, questo è l’esatto contrario del calcio. E non è questione di essere meglio o peggio, ognuno scelga cosa preferisce. E’ solo l’esatto contrario. Non esiste al mondo un tifoso che sia uno che consideri una partita di pallone come uno spettacolo. Non esiste lo spettacolo. Che c’entra lo spettacolo? Quando la tua squadra segna dopo cinque minuti tu non vedi l’ora che la partita finisca, perché non ti interessa niente dello spettacolo, meno di zero, ti interessa solo vincere, sempre e comunque, anche contro una squadra di serie C, figurarsi in uno scontro diretto per lo scudetto. E non ti importa niente dello spettacolo anche se hai pagato fior di euro per un posto nella tribuna centrale del celebre stadio. Certo che è assurdo che uno spenda una fortuna per una partita di cinque minuti, ma se si potesse, tutti firmerebbero per finirla immediatamente.
Lì dentro c’è tanta di quella roba che uno show, e nemmeno un semplice sport, non può neanche lontanamente immaginarsi. C’è l’infanzia, il ricordo del tuo papà quando era ancora un eroe invincibile e non un poverocristo come tutti gli altri, il ricordo del tuo bambino quando non era ancora diventato un estraneo, l’estasi della vittoria, la sensazione di sentirsi parte di un’onda più lunga, e poi la solitudine straziante della sconfitta, e l’ingiustizia e l’odio, l’incontenibile bisogno esistenziale di odiare qualcuno e qualcosa e di riversare su quella vicenda tutti i cumuli di livori e dolori e nevrosi e frustrazioni che uno deve tenersi dentro nel resto della settimana perché altrimenti sarebbero guai. Ed è un bene che esistano luoghi deputati allo scarico dell’aggressività e della violenza (verbale), perché anche di questo schifo è fatto l’uomo ed è importante che si sappia e non lo si dipinga per quello che assolutamente non è.
Ognuno di noi ha visto persone integerrime, stimatissime, colte ed educate trasformarsi in assatanati volgari, sleali, antisportivi, complottisti e attaccabrighe durante quei novanta minuti ed è normale che sia così e che lì, almeno lì, si attui quella salvifica regressione che ti porta a scatenare la tua infantile, struggente e, come ovvio, perdente guerra contro il mondo. Ognuno ha la sua. Chi scrive, ad esempio, visto che detesta il servilismo, il leccapiedismo e soprattutto il conformismo, ritiene da sempre che ci sia una squadra, nei confronti della quale tutti si inginocchiano, che rappresenta il male del mondo (Brasile), un’altra che rappresenta il male d’Europa (Real Madrid) e un’altra ancora che rappresenta il male d’Italia (ma questa non si può dire, altrimenti gli incendiano la redazione…). C’è del vero, però in larga parte è una stupidaggine. Ma tant’è, almeno qui lasciateci qualche certezza. D’altronde, se non fosse per questa irresistibile pulsione dionisiaca, quella che si prova quando la palla entra in rete, nessuna persona intelligente potrebbe mai digerire quei ragazzotti avidi e ignoranti dei calciatori, quei traffichini dei presidenti, quei banditi dei procuratori e quella sottocategoria di servi e analfabeti dei giornalisti sportivi (con tutte le eccezioni del caso, per carità...). Basta un gol di tacco e la caducità della vita è dimenticata.
Tutto questo, nel modello mondiali del Qatar, ma anche nel progetto Superlega ideato dai club più importanti, ma anche in quello della nuova Champions di quei geni della Uefa, non c’è più. Lì c’è solo lo sviluppo abnorme, strabordante, cellulitico delle partite, del grande Barnum delle dirette televisive per gonfiare il pallone come un rospo e trasformare Liverpool-Bayern da evento eccezionale che capita una volta l’anno, in una routine settimanale. Un’abitudine, una riunione condominiale del mercoledì sera riservata ai soliti noti, perché solo i soliti noti possono partecipare, alla faccia dei risultati sportivi. Con il paradosso che se la Salernitana arrivasse terza in campionato resterebbe comunque fuori dalla Superlega. Le mancano i quarti di nobiltà. Fine del calcio.
Ed è lì che si arriverà, presto o tardi. Bisogna solo vedere se comanderà il filosofo Pérez o il filantropo Ceferin. Ma poco cambia. Una faccia, una razza. E felice Qatar-Ecuador a tutti.
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