Come Marina Ripa di Meana, o Lante della Rovere se preferite, anche l’area ex Ticosa potrebbe pubblicare un libro sui suoi primi quarant’anni. Di abbandono totale. Cade infatti proprio nel 2022, l’anno delle nuove elezioni comunali, l’ottavo lustro trascorso dalla chiusura della grande “Tintostamperia” poi acquistata dal Comune di Como con l’obiettivo di recuperarla alla città soprattutto per salvaguardare i livelli occupazionali e produttivi. Peccato che quei lavoratori ormai siano stati collocati in pensione da tempo, così come forse anche buona parte dei loro figli. Nel frattempo la Ticosa, da priorità di tutte le priorità, è scivolata lentamente nell’oblio, scomparsa anche dall’immaginario dell’amministrazione comunale attuale, dopo l’idea quantomeno bizzarra e abortita in fretta di collocarvi la sede dell’amministrazione medesima, cioè il Comune. Nel frattempo, i resti in via Grandi vanno assumendo una conformazione archeologica, occultati dalle selve cresciute selvagge, spontanee, disordinate e comunque rigogliose.
Sic transit gloria mundi. La Ticosa è l’emblema della sconfitta per il ceto politico e amministrativo che si è alternato a Palazzo Cernezzi negli ultimi quarant’anni. Ed è, con ogni probabilità in Italia e con buona certezza in quella del Nord, l’unico esempio di grande opera neppure irrisolta, ma addirittura mai avviata. Persino realizzarvi un banale parcheggio a raso appare un’impresa titanica: per colpa della bonifica infinita del sottosuolo, che per anni ed epoche senza regole sull’inquinamento ha inghiottito quantità di scorie industriali, visto che quella era una fabbrica di veleni assortiti. L’odissea del risanamento, peraltro, è figlia della scelta dell’amministrazione guidata da Stefano Bruni, che produsse un progetto per la vendita dell’area liberata dalle strutture industriali a una multinazionale che vi avrebbe realizzato case e negozi, in una zona dove il sole batte poco e a ridosso del cimitero. Contenti loro… Che infatti non lo furono e innestarono la retromarcia ai primi segnali di flessione del mercato immobiliare dopo la crisi mondiale innescata dai mutui subprime, anno 2008. Nel frattempo però, con tanto di fuochi d’artificio e incognite sull’amianto liberato nell’aria, erano stati abbattuti i capannoni che, come si è fatto con successo altrove, avrebbero potuto essere recuperati: si era creato così il problema del terreno impregnato di sostanze non proprio benigne da eliminare. Una rogna lasciata in eredità a chi è arrivato dopo, vedi gli attuali amministratori i quali, a loro volta, ancora non ne sono venuti a una. Perché quando c’è la Ticosa di mezzo ogni questione anche semplice si allunga e si imbroglia. E di solito, non si risolve. Com’è successo a tutti i progetti rimasti sulla carta per il recupero dell’area. A metterli assieme si potrebbe realizzare una non piccola biblioteca. Alla fine, la resa: cerchiamo di farne almeno un parcheggio, è la parola d’ordine. Poi si vedrà. Peccato che l’area, com’era strategica ai tempi in cui fu acquistata dall’amministrazione guidata da Antonio Spallino, resta tale anche in funzione di quella grande incompiuta o compiuta a casaccio che si chiama “cannocchiale San Rocco-San Rocchetto”, sfida urbanistica tutt’ora da vincere. Nel frattempo poi, la Ticosa ha trovato una sorellina: la quasi contigua zona in cui sorgeva l’ospedale “Sant’Anna”, anch’essa in balìa di destini mutevoli e tuttora quasi del tutto irrealizzati. Insomma, considerato che la bandiera sul ponte dell’attuale governo comunale sembra appena uscita da un lavaggio con candeggio, la prossima non avrà di che annoiarsi. Anche se la Ticosa è qualcosa che rischia di bruciarti prima ancora che tu abbia pensato di metterti al riparo dalle fiamme. In vista dei primi quarant’anni, siamo ancora a quello zero.
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