I grandi eventi che ciclicamente sconvolgono il mondo - come le catastrofi naturali, le guerre e le epidemie -, oltre a provocare i danni che sappiamo, portano a galla il vero carattere degli uomini, quindi dei popoli. Secondo Aristotele, infatti, è nelle situazioni gravi che la gente rivela la sua natura. Messo di fronte a un pericolo forse ignoto, ogni individuo appare quello che è: più spesso meschino che degno di stima; più egoista che generoso; fondamentalmente vile e spregevole. L’attuale epidemia provocata dal Coronavirus ne è una prova lampante. Gli Stati ancora indenni dal virus si sono racchiusi ciascuno nei propri confini o per lo meno hanno cercato di impedire contatti con chi, come gli italiani del Nord Italia, presenta casi elevati di malattia. Taluni hanno chiuso le loro frontiere, altri hanno spedito a casa, in Italia, i turisti che, apparentemente sani, avevano scelto quelle località per le loro vacanze: vedi per esempio le Maldive. Alcune Nazioni, inoltre, per difendersi da un pericolo non ancora chiaro, hanno bloccato le importazioni dai Paesi infetti.
Le conseguenze di questi provvedimenti sul piano economico saranno altissime per anni. E, soprattutto, ciò lascerà tracce ben visibili nella storia dei rapporti tra questi Stati, quasi fosse stato scavato un abisso invalicabile a livello delle loro relazioni diplomatiche.
Quanto ai singoli individui, al momento siamo ancora alle battute di spirito, ma in ogni nazione c’è una sorda opposizione allo straniero proveniente dai territori contagiati. È il caso dei cittadini cinesi che sono stati insultati e malmenati nelle strade del nostro Paese o dei cittadini italiani che all’estero, in Francia come in Svizzera, sono riguardati come untori. Tuttavia, al di là di questi episodi macroscopici raccolti dalle cronache giornalistiche e televisive, c’è un fatto che pare di minore rilevanza e importanza e, invece, è di una gravità estrema. Non c’è nessuno che della morte di un individuo anziano non abbia pensato o detto: “Era vecchio ed era pieno di malanni. Il Coronavirus dunque c’entra poco o niente”. Questa considerazione è di una forza tragica che sconvolge tutti i parametri etici e sociali sui quali si fonda o dovrebbe fondarsi la convivenza umana. Forse essa in prima istanza è una valutazione di tipo consolatorio, in quanto chi la fa è come se pensasse o dicesse: “Allora io non ho da preoccuparmi: la mortalità da Coronavirus riguarda soltanto le persone molto anziane e già affette da tempo da gravi patologie”. Bello. Se colui che è morto era vecchio e già malato, e tutti i morti fino ad ora sono pazienti anziani e con gravi problemi, non c’è da preoccuparsi. Bellissimo. E così facendo dividiamo l’umanità in due gruppi: quelli che muoiono di Coronavirus da vecchi si ritiene che muoiano in realtà per l’età e per i malanni pregressi e quelli che, essendo giovani, del Coronavirus non devono preoccuparsi perché si ritiene che non ne moriranno.
Il concetto che è alla base di queste considerazioni è, come abbiamo scritto, la manifestazione di una meschinità tanto vile quanto ignobile, poiché a giudizio di una persona al momento sana è quasi normale che un ottantenne possa morire di Coronavirus senza suscitare interesse e compassione. Se avesse avuto sette, quindici, venticinque o cinquant’anni, allora sì che sarebbe una cosa inquietante, una cosa che dimostrerebbe l’esistenza di un virus mostruoso che deve fare paura a tutti.
È un po’ come quando incontriamo per strada un amico che non vediamo da qualche tempo e che ci ragguaglia sulle conoscenze in comune: “È morto mio cugino Sergio”. “Ah, sì?” e subito dopo, inevitabilmente, gli chiediamo se era sposato ed aveva figli. Saputo che non lasciava né moglie né figli, la notizia non ci interessa più. Allo stesso modo, dopo aver sentito in televisione o letto sul giornale che c’è un altro anziano vittima del Coronavirus, cambiamo canale, giriamo la pagina o andiamo al supermercato a fare scorta di alimentari e di disinfettanti.
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