Si può sperare che la terra fruttifichi senza coltivarla? No, o almeno non a sufficienza per soddisfare i bisogni di un numero financo eccessivo di esseri umani. E allora come si può pensare che dia frutti la cultura - non a caso derivata dal latino “colere”, ovvero, per l’appunto, “coltivare” - ignorando o abbandonando a se stessi i terreni potenzialmente fertili rappresentati da persone, associazioni, enti e spazi fisici in cui sono racchiusi competenze, passioni e tradizioni da innovare costantemente?
Per comprendere gli effetti dell’abbandono dell’agricoltura eroica, praticata per secoli nel territorio comasco, basta confrontare le foto del primo Novecento con quelle di oggi: non rimane quasi nulla dei terrazzamenti che caratterizzavano i versanti attorno al Lario e, inevitabile conseguenza, si è moltiplicato il dissesto idrogeologico.
Qualcosa di simile sta avvenendo in ambito culturale. Per “fotografare” il passato, basti ricordare che Como ha dato al mondo la prima enciclopedia (con Plinio il Vecchio) e il primo museo (con Paolo Giovio) della storia, nonché quell’oggetto fatto di dischi di zinco e rame sovrapposti (la pila di Volta) che oggi più che mai assume un ruolo decisivo per il futuro sostenibile del pianeta. Non solo, quando si trattò di unire le migliori forze cittadine per definire (e agire) l’identità territoriale, all’interno di una nazione di cui si rivendicava l’unità e l’indipendenza, ci si rifece proprio ai massimi esponenti del genius loci: i venti “illustri comaschi” fatti dipingere nella sala consiliare del Comune dal podestà Perti nel 1847 e le cui biografie furono raccolte in un volumetto dal vicesegretario comunale, Luigi Dottesio, donato ai consiglieri perché non corressero il rischio di disegnare il futuro di Como senza conoscerne storia e valori.
Da qualche tempo il libro di Dottesio è tornato disponibile, grazie a un’importante opera di digitalizzazione di tanti volumi che riguardano la storia di Como... realizzata oltreoceano da Google e da Internet Archive. E sono ora a portata di clic anche le prime splendide immagini a colori del Lario, grazie alle biblioteche di Washington e di Zurigo. Quando il mondo potrà fruire dell’archivio Brunner, con almeno 10mila foto storiche di paesaggi, posseduto dalla Biblioteca di Como e per la cui valorizzazione l’associazione La Stecca ha raccolto 10mila euro di contributi lo scorso anno? Pare che qualcosa si stia muovendo, ma intanto i musei fisici sono tutti chiusi in questo momento, con la sola eccezione della Pinacoteca, come chiusi risultano gli spazi espositivi, e non a causa del Covid-19, bensì di anni di disattenzione.
Il coronavirus ha evidenziato fragilità ataviche: se l’anno scorso pareva finalmente acquisto il dato che amministrazioni e operatori culturali debbano sedersi a uno stesso tavolo, e in stretta relazione con il mondo del turismo, per progettare in modo efficace, la pandemia è stata colta non già come motivazione per accelerare il processo di progettazione partecipata innestato dal Piano Integrato della Cultura, bensì come una scusa per sospenderlo di fatto per un anno. Responsabilità in primis di Regione Lombardia, che ha congelato il bando chiuso a novembre 2019, al quale avevano aderito insieme oltre sessanta realtà territoriali. Ma è lecito chiedere che Camera di Commercio, vertice della cabina di regia, sia più lungimirante del Pirellone e riprenda al più presto, accanto a iniziative certamente utili come il bando cultura, il calendario unico degli eventi e la vetrina milanese di ieri, un confronto fattivo e bidirezionale con enti e associazioni culturali, per non rischiare di disperdere di nuovo competenze e risorse (il Pic era partito proprio da una riflessione su oltre 10 milioni di euro investiti in maniera poco efficace nella cultura negli ultimi 15 anni).
Mentre celebriamo Diletta Leotta e Belen che hanno portato visibilità al nostro lago dopo la quarantena, non dimentichiamo che 200 anni fa (non a caso il tema del Pic era “Grand Tour 3.0”) arrivavano da queste parti, per limitarci ai nomi femminili, Lady Morgan e Mary Shelley e i proprietari delle grandi ville facevano a gara a invitarle sperando in una citazione in qualche loro libro. La prima dedicò al Lario ben 27 pagine nel suo “Italy” e la seconda un intero volume di “Rambles in Germany and Italy”, oltre a un’infinità di riferimenti nei romanzi a partire dalla seconda edizione di “Frankenstein”.
C’è da sperare, e da fare tutto il possibile, perché sia davvero un anno zero per la cultura a Como, ovvero di ripartenza in modo diverso, sia da parte delle amministrazioni (senza generalizzare, perché ve ne sono anche di illuminate in provincia) che, ci permettiamo di aggiungere, degli operatori culturali. La vicina Valtellina ci insegna che sia per coltivare le menti che i terrazzamenti occorre fare squadra: ne sono prova due progetti di rete per la digitalizzazione del patrimonio librario e altrettanti di rigenerazione delle “rupi del vino” attraverso l’unione fondiaria. Sul lago di Como, invece, come i fianchi delle montagne restano divisi in migliaia di piccole proprietà, così il campo culturale risulta estremamente frammentato. Eppure qualche segnale positivo sta arrivando, proprio “grazie” alla crisi innestata dal Covid-19: lunedì della scorsa settimana le compagnie teatrali comasche erano tutte nella stessa piazza Verdi a manifestare (ben 25, mentre a Brescia, grande il doppio di Como, ne hanno dovute riunire 8) e ieri è stato annunciato il ritorno sotto lo tesso tetto (a fine ottobre a Villa Olmo) di ParoLario e Fiera del Libro, che se non si fossero divise tanti anni fa, forse sarebbero riuscite a dare a Como un festival letterario capace di competere con quelli coevi di Mantova e Pordenone. Il prossimo venerdì ci sarà un altro banco di prova: l’“abbraccio alla città”, ovvero la catena umana attorno a una parte del centro storico convocata dall’associazione Luminanda, per dare un segnale collettivo al Comune di Como dopo la chiusura del Chiostrino d’Artificio per mancanza di risposte (su rinnovo della concessione o bando).
Che occorra un confronto profondo tra i portatori di cultura, e che non si fermi alle manifestazioni di protesta e neanche agli eventi, lo dimostra sempre la storia di questa nostra città: l’ultimo segno forte è stato lasciato nel tessuto urbano all’epoca, politicamente non certo delle migliori, di Terragni, Radice, Bontempelli, Sarfatti, ovvero quando il confronto ha superato gli steccati che spesso dividono persino i diversi ambiti della cultura. In quanto agli spazi, Como, oltre a riaprire quelli chiusi, meriterebbe una casa della cultura forte e riconoscibile, in posizione strategica. Avanziamo due proposte, che ben si collegherebbero tra loro e con il Chilometro della conoscenza: il ristrutturato e ancora chiuso Casino Nord di Villa Olmo, già sede del glorioso Autunno Musicale (riaprirlo con uno scopo del genere sarebbe anche un bell’omaggio a Italo Gomez recentemente scomparso) e Villa Gallia, sorta sulle rovine del museo di Paolo Giovio, che a sua volta scriveva di aver costruito su quelle di una villa di Plinio il Giovane e oggi seconda sede (con l’attigua Villa Saporiti) di un’Amministrazione provinciale in fase di ridimensionamento.
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