Quelli del centrosinistra si portano avanti: cominciano a litigare in campagna elettorale e poi proseguono. Nel centrodestra, perlomeno, riescono ad approcciare le urne compatti salvo poi, in maniera più subdola, cominciare con i distinguo.
Se Lucio Dalla cantava “Milano è vicino all’Europa”, Meloni sta tentando di riuscirci. Il disegno del premier italiano in vista delle elezioni per l’Europarlamento del prossimo anno è quello di contribuire a creare una maggioranza con Popolari, conservatori (forza di cui è presidente), ed eventualmente, se i numeri non fossero sufficienti, anche con i liberali di Macron. Un modo per guidare un processo che vede il Vecchio Continente andare sempre di più a destra, lasciando fuori sia le principali forze euroscettiche sia i socialdemocratici. L’obiettivo della leader di FdI è quello essere del tutto “sdoganata” dall’establishment di Bruxelles. La cosa però non piace a Matteo Salvini che, con la sua Lega, è anche dalla parte di Marine Le Pen e dei tedeschi di Afd, di impronta neo nazista. Il Capitano, che con l’estate è facile alle sortite (abbiamo ancora in mente il pronunciamento del Papeete del 2019 con la richiesta dei pieni poteri), sta cercando di rompere le uova nel paniere alla sua alleata-avversaria e lancia per la futura guida europea, una coalizione sul modello di quella che governa a Roma e che a suo dire sta ottenendo ottimi risultati. Peccato che, oltreconfine, una simile compagine dovrebbe imbarcare proprio anche Le Pen e Afd. Una prospettiva che ha fatto subito saltare i nervi ad Antonio Tajani, ministro degli Esteri di Forza Italia e vice premier come Salvini, anch’egli fautore di una maggioranza moderata che escluda gli euroscettici.
Dire che questa differenza di prospettive sull’Europa possa aver ripercussioni sul governo, già alle prese con i casi Mes, Santanchè e Sgarbi è di certo azzardato. Non fosse altro perché alle elezioni per il Parlamento europeo si vota con il vecchio sistema proporzionale che vede tutti contro tutti, soprattutto tra coloro che devono pescare nel medesimo elettorato come capita per il centrodestra. È chiaro però che il tentativo di condizionare Giorgia Meloni attraverso le forze euroscettiche, a prescindere da come andrà il voto del prossimo, anno, significa crearle difficoltà oggi nel rapporto con Bruxelles. Poi qualcuno si stupisce perché il premier continua a dare cenni di nervosismo e le capita (il bisticcio delle concordanze non è un errore, ma lei nella sua veste istituzionale preferisce essere appellata al maschile) di perdere le staffe. Ma è chiaro che governare una fase non facile come questa, con le divisioni sul Mes e le pressioni dell’Europa per approvarlo, gli “incidenti” a raffica provocati da ministri e sottosegretari e ora le differenze di prospettive politiche sull’Europa, non è davvero una passeggiata di salute. Lei per ora ha buon gioco nel respingere l’assalto di Salvini, che, salvo smentite nell’urna, appare davvero improbabile. Ma bisogna vedere quali potrebbero essere le conseguenze sull’elettorato di centrodestra che non ama l’Unione europea così com’è ora. Chiaro che l’obiettivo del capo leghista che non ha mai digerito la leadership di Meloni pur avendo dovuto piegarsi alla logica dei numeri che l’ha costretto a sostenere ed entrare in un governo che avrebbe potuto e forse voluto avversare come aveva fatto Giorgia con quello guidato da Draghi e sostenuto dal Carroccio, è di sottrarre voti all’alleato nel voto del prossimo anno e poi magari presentare il conto con un’altra sortita sotto il sole (le elezioni europee saranno a giugno).
Del resto, non va dimenticata la profezia di Matteo Renzi, uno dei massimi esperti di cadute governative, che ha vaticinato la fine del governo Meloni proprio dopo la consultazione continentale.
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