Di Cinque Stelle ne resta solo una

In un vecchio Carosello le stelle erano tante “milioni di milioni”. In politica sono cinque e brillano sempre meno. C’è un motivo per cui il movimento fondato da Beppe Grillo si chiama come la classificazione di un hotel di lusso. Il pentagono infatti, in origine, voleva rappresentare vari ambiti del vivere quotidiano. Si era partiti, per esempio, dall’acqua e l’ambiente per evolversi nell’ecologia integrale e così via.

In realtà forse, le vere stelle erano rappresentate dalle, appunto, “star” del movimento: Beppe Grillo, Casaleggio padre, Alessandro Di Battista, Luigi (Giggino) di Maio e Giuseppe Conte. Di questi è rimasto solo l’ultimo che ha di fatto trasformato il movimento anti sistema in un partito integrato nel sistema e collocato a sinistra. Una mutazione che poco lascia dell’impianto originale di un sodalizio che non voleva essere né di destra, né di centro né di sinistra e poi ha finito per allearsi con entrambe in due governi diversi, ma sempre guidati da Conte. Nel frattempo, Gianroberto Casaleggio è passato a miglior vita, il figlio Davide non è stato alla sua altezza, Di Battista ha lasciato la compagnia da cui si era comunque allontanato da tempo, dopo l’ingresso nel governo di Mario Draghi, Di Maio ha fatto lo stesso,ma al contrario, dopo la decisione di non sostenere più l’ex governatore della Bce, Grillo si è disimpegnato. Conte, pur detronizzato da palazzo Chigi, si è ritrovato padrone della scena e alla testa di una forza che ha perso buona parte dell’elettorato, ma mantiene comunque l’11% dei consensi, terzo partito dopo FdI e Pd e quasi sempre determinante per il centrosinistra. Il problema però è che ormai è fermo da tempo a questo “zoccolo duro” che preclude al suo leader qualunque possibilità di porsi come guida dello schieramento di opposizione e, in prospettiva, come candidato premier alle prossime elezioni politiche.

Come detto, il movimento Cinque Stelle è sempre stato allergico alle alleanze. In realtà poi si è di fatto unito con la Lega di Salvini nel governo Conte Uno, utilizzando l’escamotage del “contratto”, formula peraltro non ripetuta dopo il ribaltone che ha portato il movimento all’accordo con Pd per la seconda esperienza dell’avvocato pugliese, new entry della politica, a palazzo Chigi.

Adesso Conte, tra diffusi mal di pancia interni, annuncia una rifondazione che potrebbe addirittura portare al cambio del nome. L’obiettivo non è tanto quello di rafforzare una leadership che comunque non ha alternative, salvo ritorni improbabili delle “star” di cui sopra, ma di cercare di guadagnare consenso a sinistra e potere contrattuale nell’alleanza tanto inevitabile quanto mal digerita con le altre forze di opposizione. E il macigno sullo stomaco di Conte è diventato ancora più pesante dopo l’annuncio di Matteo Renzi, colui che ha di fatto posto fine all’esperienza di Giuseppe alla guida dell’esecutivo, di voler rientrare nella coalizione.

La strategia alternativa potrebbe essere solo quella di un ritorno alle origini, al movimento anti sistema contro tutti che, proprio per questo, era riuscito a sfondare alle elezioni politiche del 2018 in cui, con il 35% di voti aveva conquistato il primato. Ma i tempi sono cambiati, anche se forse le attuali condizioni sociali potrebbero favorire un processo del genere. Si tratterebbe però di un deja vu, un già visto che non aveva poi portato ai risultati perseguiti, a parte la riduzione del numero dei parlamentari, peraltro più dannosa e demagogica che altro. Alla fine per mantenere ancora poltrone e posizioni di potere, i Cinque Stelle (o come si chiameranno), terranno l’attuale pelle e Conte al comando. Con tanti saluti a quel che è stato, ma soprattutto a quel che sarebbe potuto essere.

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