Djokovic, lo sport. Battaglia
esistenziale

Il momento arriva. Chi ha fatto sport, ma sport sul serio, agonistico, non la corsetta o la biciclettata per far scendere la panza o il sederone, lo capisce prima degli altri. Lo sente arrivare. Lo sente su di sé. Il momento in cui perdi, in cui crolli, in cui non ce la fai più. In cui l’Altro prende il tuo posto.

Lo sport è una battaglia esistenziale, una discesa agli inferi che sfugge completamente al novanta per cento dei giornalisti sportivi, che infatti, in quanto giornalisti sportivi, di sport non capiscono una mazza. O perché sono incompetenti o perché sono tifosi o perché sono servili - poi ci sono tutte le eccezioni del caso, per carità, noi ad esempio abbiamo in casa almeno tre o quattro fenomeni eccetera eccetera - e quindi non riescono proprio a capire che questa faccenda ha ben poco a che fare con il risultato, la classifica, il trofeo e invece tanto, tantissimo con la spietata, inesorabile circolarità della vita.

L’ottavo di finale del Roland Garros di qualche giorno fa tra il (allora) numero uno del mondo Novak Djokovic e il tennista argentino Francisco Cerundolo entra a pieno diritto in questa dimensione “altra” che diventa immediatamente, per chi abbia gli occhi per vederla, lezione di vita, catechesi, pedagogia. Ci sono pochi atleti al mondo invisi come Djokovic, odioso, malmostoso, rancoroso, vanaglorioso, no vax, fascistoide, nazionalista, integralista, perfezionista, salutista ben al di là di quello che era già stato a suo tempo un altro simpaticone del livello di Ivan Lendl. E’ il più forte di tutti da tanti di quegli anni, ma privo dell’eleganza raffinatissima di Federer o dell’empatia mediterranea di Nadal, perché lui è fatto di tutt’altra pasta: questo è il matto slavo, il cattivo slavo, il demone slavo, figura eminentemente letteraria dai tratti smaccatamente infernali, da romanzo russo, da antieroe tormentato e febbrile alla Dostoevskij. Un brutto ceffo.

Eppure non è stato davvero possibile non commuoversi quando lo si è visto arrancare per cinque interminabili set, rotto, infortunato, con il ginocchio che non teneva più, vecchio, tra smorfie di dolore e litigate con la moglie in tribuna, un idolo mineralizzato stoico ed eroico nel cercare forze che solo il pozzo della disperazione può farti trovare. Fino a vincere dopo quattro ore di calvario la più impossibile delle partite, andando oltre l’immaginabile, resistendo alla sofferenza e alla menomazione come solo uno stilita, un monaco, un bonzo può fare.

Tutti hanno giustamente applaudito ed esaltato l’impresa sportiva, che faceva seguito a un’altra impresa nel turno precedente, quando già infortunato era riuscito comunque a battere, ancora una volta al quinto set, Lorenzo Musetti, ricordando quanta classe, quanta forza fisica e mentale, soprattutto, e quanto orgoglio avesse dimostrato il fuoriclasse serbo in quella interminabile corrida. Tutto vero. Tutto giusto. Tutto consono. Ma non è solo questo. Qui siamo oltre il tennis, qui siamo oltre lo sport, qui siamo entrati in una dimensione addirittura filosofica, esistenziale. In quel match non c’è solo la voglia di aggiudicarsi un altro Roland Garros (dopo aver già vinto 24 Slam, una cifra mostruosa), di dimostrarsi ancora il migliore alla faccia dei suoi trentasette anni suonati, di non perdere il titolo di numero uno al mondo. Qui è andata in scena un’altra cosa.

A un certo punto del match si è capito che quella non era più una partita di tennis, ma una pura metafora: la lotta dell’uomo contro la morte. L’esito lo conosciamo già - la partita a scacchi del Cavaliere contro la Morte nel “Settimo sigillo” di Bergman è truccata, la ginestra di Leopardi non potrà che soccombere alla lava del Vesuvio, il ghiaccio del lago su cui pattina il bambino del “Decalogo” di Kieslowski è destinato a rompersi - e infatti il giorno dopo questa sua straordinaria vittoria Djokovic è stato costretto al ritiro dal torneo, a un’operazione al ginocchio, al più che certo forfait anche di Wimbledon e, soprattutto, a dover cedere la corona di re della classifica mondiale.

Ma è proprio questo che ha reso quella partita commovente, a tratti straziante. L’uomo che combatte furiosamente contro il proprio destino, pur sapendo che quello è già segnato. Cosa può fare altrimenti? Lui sa già che Sinner e Alcaraz, con l’arroganza dei loro vent’anni, rappresentano il suo bacio della morte, sa che l’attimo fugge, la clessidra scorre e che nulla, ma nulla davvero può riportargli il tempo perduto. Sa perfettamente che pochi giorni dopo la sua caduta altri atleti, altri tennisti, altri campioni magari meno forti di lui, senz’altro meno forti di lui, si prenderanno la scena e di lui, del grande, dell’invincibile, del cannibale, del robot non rimarrà niente, solo una nota a margine nell’archivio della storia. Ed è questa la radice della ribellione. La sua. La nostra. Non è forse quello che proviamo tutti, potenti o falliti, benestanti o scappati di casa, quando sentiamo arrivare il momento? Perché il momento arriva. E tu sei solo. Solo. Solissimo. L’essere più solo dell’universo. E chi lo accetta? Chi è così saggio, così profondo, così maturo da rassegnarsi? Lo dici, certo, ma non lo pensi. E non lo fai. Ti dibatti per un po’, illudendoti, come un pesce argentato nel retino sotto il pelo dell’acqua, prima che il braccio del pescatore lo alzi e sia tutto finito.

È una grande pedagogia, quella offerta da questo irriducibile campione, un eroe laico dell’esistenza, e della resistenza, che nel suo fallimento trova la sua giustificazione, nel suo angosciato attaccamento alla vita coglie forse un minimo di conforto, nel suo disperato istinto di sopravvivenza assomiglia sempre più al replicante di “Blade Runner” quando chiede al suo creatore: “Io voglio più vita, padre!”. Ma così come a lui non servirà a nulla ucciderlo, allo stesso modo non servirà a nulla a Djokovic vincere un ennesimo Slam. La caccia è finita. La carriera pure. E con lei, la vita. “E’ tempo di morire…”.

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