Cercasi allibratore disperatamente. Chi è disposto ad accettare e quotare la scommessa per cui una volta che si sarà depositata la polvere sul dolore per l’uccisione di don Roberto, e calato l’oblio, che, per fortuna, è insito nella natura umana, tutto resterà come prima? Pochi si azzardano, eh.
E hanno ragione se guardano alle esperienze recenti di Como. Una città che lo dice la sua storia, è sempre stata un esempio di generosità, tolleranza, integrazione e pace anche attraverso i gemellaggi, tra cui quelli con Nablus in Palestina e Netanya in Israele, ma ora invece proietta un’immagine distorta di odio, violenza, brutalità (esemplare un servizio del Tg3 di ieri sera) e di sacerdoti martirizzati. Don Roberto dopo don Renzo, quasi un agghiacciante primato. Dopo la morte del prete degli ultimi, vani sono stati gli appelli di chi chiedeva di onorarlo con il silenzio e magari la preghiera che sono stati i tratti più caratteristici di questo religioso. E invece no. Sono ripartite le solite dispute sull’immigrazione, quelle polemiche tra novelli Guelfi e Ghibellini sempre con il piede sul pedale dell’indignazione in un senso o nell’altro. Il consueto approccio di facile consumo a un problema più che complesso. Perché anche se i porti fossero chiusi sarebbe, al contrario, la stalla blindata con i buoi a spasso. Poiché il tunisino era qui da anni. Ma sarebbe anche il momento di avere, finalmente, una certezza sui rimpatri dei soggetti che, per legge, non possono restare nel nostro Paese. Eppure questa tragedia c’entra relativamente con tutto questo. Oggi sappiamo che, con ogni probabilità, salvo imperscrutabili disegni della Provvidenza, don Malgesini è morto per caso. Al suo posto, nella mente magari non malata ma disturbata e sconvolta del suo assassino, ci poteva essere un avvocato o magari chiunque altro. Perché quell’uomo voleva uccidere e basta, chi, nella sua visione distorta delle cose, faceva parte di un’irreale complotto per rimandarlo in Tunisia, la sua patria da cui era fuggito e aveva escogitato ogni espediente per non ritornarci.
Se però l’omicidio del sacerdote c’entra poco con il clima di intolleranza che anche a Como si è diffuso come un po’ dappertutto senza che neppure l’emergenza Covid sia riuscito a dissiparlo come immaginato da qualche anima bella, non significa che il problema non esista. Don Roberto lottava ogni giorno per aprire finestre di speranza, fratellanza e possibilità di integrazione. Senza se e senza ma, con poche parole e tanti gesti. Si è detto che lui e coloro che lo affiancavano sono stati lasciati soli dalle istituzioni, che il problema, innegabile, della gestione delle povertà sia stato scaricato sulle spalle di un volontariato non supportato e a volte pure ostacolato. Lo dimostra anche la multa, poi archiviata, con cui era stato sanzionato il sacerdote martire reo di portare la colazione ai senzatetto.
Ecco, allora per onorare davvero la memoria di don Roberto, Como, tutta la città a partire dalle sue istituzioni, dovrebbe attivarsi per combattere l’intolleranza o almeno per non far sì che vi siano più delle situazioni tangibili che contribuiscono ad alimentarla. Vasto programma? Forse. Ma non irrealizzabile se vi fosse la volontà politica e quella di rimettere in discussione strategie sbagliate e di ricucire rapporti nel tessuto sociale che si sono lacerati negli ultimi tempi. Qui sta la scommessa che, però, si rischia di perdere. Perché di questo cambiamento di rotta non vi sono tracce e poi, bisogna essere sinceri, politicamente non sarebbe redditizio, almeno nell’immediato. Ma le visioni strategiche sono ormai un ricordo lontano. Ed è un peccato perché Como non è quella che sta apparendo negli ultimi tempi nell’immaginario collettivo. E l’azione di don Roberto e di quelli come lui che la proseguiranno sta lì a dimostrarlo. Se a loro se ne aggiungeranno tanti altri, il martirio del “prete degli ultimi” non sarà stato vano. Ma non c’è da essere ottimisti.
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