Due candeline. E forse qualche candelotto di dinamite sotto il tavolo. Ieri Giorgia Meloni ha celebrato il secondo anniversario del suo governo, il primo nella storia della Repubblica guidato da una donna e con la maggioranza relativa del partito più a destra della politica italiana, erede di quel Msi che, va ricordato, era escluso dal cosiddetto “arco costituzionale”.
Il premier (che ama essere appellato al maschile) ha svolto il doveroso compitino di illustrare quelli che per lei sono stati i successi dell’esecutivo, l’opposizione è immediatamente partita con il controcanto. Tutto come da copione con un vero e unico dato e oggettivo: il governo attuale, al di là di qualche deriva ideologica, più nelle enunciazioni che nei fatti (eccezione non necessariamente censurabile: la legge sulla maternità surrogata), non è molto diverso da quelli che l’hanno preceduto. Fanno fede anche le statistiche: la parte di programma che può considerarsi realizzata è del 20%, che arriva al 40 se si considera anche quella in itinere. Lo stesso si può dire per gli esecutivi guidati da Mario Draghi e, prima ancora, Giuseppe Conte. A favore di Meloni e i suoi vi sono la sostituzione del reddito di cittadinanza con l’assegno di inclusione, incentivi per l’occupazione. Tuttavia, il taglio delle tasse e la gestione dell’immigrazione restano punti critici, con gli sbarchi raddoppiati e le riforme fiscali attuate solo parzialmente rispetto alle promesse elettorali. Del resto, anche l’attuale manovra ha dovuto prendere atto dell’addio ai sogni di gloria, visti i vincoli imposti dell’Europa, appesantiti dalla fine dell’emergenza sanitaria e delle possibilità di operare in deficit.
Circa l’80% delle promesse è ancora in corso o non realizzato. Il dossier, oltretutto identitario, in cui si notano maggiori difficoltà è quello della gestione degli immigrati, come si vede anche dalla discutibile operazione Albania che avrà ulteriori sviluppi che potrebbero non essere positivi. Riguardo al fisco, in tutta onestà, si è fatto il possibile viste risorse, lacciuoli e lotta all’evasione perlopiù improntata sui condoni. Certo quello annunciato nelle piazze in campagna elettorale era altra cosa.
Il fronte delle riforme istituzionali ha visto l’arrancare di quella targata Lega sull’autonomia differenziata, osteggiata anche da una parte della maggioranza, peraltro tutt’altro che coesa su numerosi questioni anche non secondarie (vedi lo ius scholae che ha tenuto banco tutta l’estate) e il dirottamento del presidenzialismo al premierato di quella cara al presidente del Consiglio e al suo partito.
Pochi sussulti, anche se con qualche grido. Tutto sommato se non ci fossero stati il caso Sangiuliano-Boccia, il chiodo che secondo Matteo Salvini sarebbe riuscito da paralizzare l’intero traffico ferroviario, le sortite di Lollobrigida con (ancora) i treni fermati, i poveri che mangiano meglio dei ricchi e così via…, il deputato che spara alla festa di capodanno con il sottosegretario presente, forse ci saremmo annoiati come al cospetto di un grigio governo Rumor. Ci sono ancora tre anni e probabilmente ne vedremo ancora delle belle. Magari con la speranza che vi siano anche delle buone. Del resto si sa che il vantaggio del centrodestra sul fronte opposto è quello di saper essere unito in campagna elettorale salvo cominciare a litigare subito dopo la chiusura dei seggi. Gli altri, a cui va dato atto di una maggior coerenza, si mettono le dita negli occhi prima, durante e dopo il voto.
@angelini_f
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