Ma siamo davvero sicuri che abbia vinto Trump? Siamo proprio certi che sia lui il trionfatore, lui il conquistatore, l’anima della festa, la svolta epocale che, facendo tornare l’America di nuovo grande, potente, temuta e rispettata, cambierà le sorti del mondo?
Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze, quelle espresse dalle facce satolle, rubizze e arroganti della destra (anche italiana) e da quelle grigie, tumefatte e vittimiste della sinistra (anche italiana), dai festeggiamenti e dai piagnistei, dalle irrisioni maramalde sui comunisti al caviale e dagli appelli alla resistenza ora e sempre, dalla rivincita del popolo umiliato e offeso contro le élites salottiere, dalla rivolta delle radici profonde e identitarie contro la dittatura della culturetta woke e tutto il resto delle battute da quinta elementare che da anni danno il tono allo sconsolante dibattito politico in questo povero occidente e in questa poverissima, ridicola repubblica delle banane.
La vera novità, la vera svolta è che queste elezioni presidenziali sono le prime davvero post moderne, quelle che segnano davvero la fine del Novecento ben più della caduta del Muro, della conseguente esplosione del disordine mondiale, della crisi del 2008. Queste sono le prime elezioni vinte dall’“oligarchia digitale”. E quindi non le ha vinte Trump. Le ha vinte Musk. Trump, per quanto fenomeno del tutto post ideologico ed eminentemente americano per il quale le categorie di giudizio europee valgono poco o niente - e infatti l’accusa di “fascismo” nei suoi confronti fa ridere - è comunque un uomo del Novecento. Così come l’insipidissima Harris, d’altra parte. Ed è uomo del Novecento innanzitutto per l’età, ma anche per la tipologia molto stereotipata della sua esistenza: l’edilizia, la televisione, lo sport, le modelle, il clan familiare. Tutta roba del secolo scorso, tutta roba da film di Scorsese, tutta roba già nota e stranota.
Musk no. Musk è un altro mondo. E’ un altro universo. E’ un’altra civiltà. E’ uno, per quanto già cinquantenne, completamente fuori dalle nostre coordinate mentali, sociali, culturali. E non solo e non tanto perché è l’uomo più ricco del pianeta, ma per quello che pensa, per quello che fa, per quello che progetta, soprattutto. Musk non ha alcun legame con la storia, con il passato, non solo perché vuole andare su Marte e perché vuole vivere in eterno (due temi sui quali esiste da tempo una discreta letteratura), ma perché non concepisce gli istituti del Novecento. Tra cui anche la democrazia e le sue regole. Comprese le elezioni, probabilmente. Anche se non è un dittatore, un nazista, un fascista, un comunista, un Papa Re. E’ tutt’altro. E’ un’altra cosa. Una cosa nuova. E inquietante.
E stiamo attenti a non fare un altro errore capitale. Musk non è il cattivo della faccenda perché è repubblicano - questo può tentare di spacciarlo solo la comica propaganda sinistroide giusto per dire che pure questa volta non è colpa sua se ha perso, ma solo e soltanto dell’Uomo Nero di turno - visto che fino a pochi anni fa era democratico. Il tema è che lui non è né repubblicano né democratico né niente. Lui è altro. E pensa ad altro. E programma altro. Siamo davvero così ingenui da illuderci che lui e quelli che come lui, che sono schiere e frotte e plotoni (Bezos, Zuckerberg e compagnia) si accontentino del ruolo ancillare di finanziatori, di supporter, di consigliori di Trump o della Harris o di chi volete voi? Ma davvero? Ma davvero pensiamo che limitino alle risibili frontiere americane il loro raggio di azione, la loro sfera di influenza? Che gli interessi “fare di nuovo l’America grande”, come ripete sempre il mai così vetusto come in questa occasione Trump?
Appena eletto, il neopresidente degli Stati Uniti ha detto di Musk che “è nata una stella”. E ha ragione. Ma le stelle vivono di luce propria. Non riflettono quella degli altri. Neppure quella di Trump, che con tutta probabilità - come ha ricordato nei giorni scorsi Lucio Caracciolo su “Repubblica” in un’analisi particolarmente centrata - ha il suo vero Macbeth in casa, uno che con assoluta disinvoltura vende la sua tecnologia ai cinesi o ai russi per proteggere il proprio business e tanti saluti alle coordinate strategiche della politica estera del suo paese. E se anche fra quattro anni il posto dell’ottantenne Trump venisse preso dal giovane vicepresidente Vance, cambierebbe ben poco, perché è la struttura stessa della Costituzione degli Stati Uniti ad essere “vecchia” per Musk e per quelli come lui. Parlamento, Camera, Senato, Corte Costituzionale, destra, sinistra, stampa, sindacati, associazioni di categoria, welfare, magistratura, divisione dei poteri, ma anche la guerra, che è uno dei motori innati della civiltà e della storia, checché ne dicano le anime belle: tutta roba datata, tutta roba superata, tutta roba che non serve più nella megalopoli digitale, nel Mondo Nuovo iperonimo già preconizzato un secolo fa da un visionario come Aldous Huxley, nella infosfera globale (cit. Alessandro Giuli…) consumista, pseudopacifista, conformista e omeopaticamente autoritaria che ci attende.
Dicono che se non fosse nato in Sud Africa al prossimo giro nel 2028 si candiderebbe lui - e qualcuno nutre dei dubbi sul fatto che vincerebbe a mani basse? - ma forse non è questo che gli preme in assoluto. A lui e a quelli come lui non importa essere il presidente di un’America in declino irreversibile - così come è in declino irreversibile tutto l’Occidente, perché le storie a un certo punto finiscono e quella dell’Occidente sta facendo esattamente questo – ma interessa moltissimo essere il padrone della Terra, in attesa di sbarcare su Plutone.
E in fondo, pensandoci bene, non è che ci sia poi così tanto da aspettare. Basta guardarsi in giro, anzi, basta guardarsi dentro, e vedere come sono già codificati tutti i nostri comportamenti per capire che è già così. Come avrebbe detto quel genio di Gaber, non temo Musk in sé, temo Musk in me.
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