Ricorderemo a lungo il 2 febbraio 2022. Il giorno che con più ostinazione ripete il numero due ci ha privato, come per beffa, di altrettanti artisti dal talento insuperabile: Ezio Frigerio e Monica Vitti.
Vite lunghe, le loro – lo scenografo erbese si è spento a 91 anni, l’attrice romana a 90 – ma dal destino ultimo diverso. Frigerio è rimasto sempre attivissimo - dello scorso ottobre l’allestimento realizzato per il Teatro della Zarzuela di Madrid e appena di dicembre la pubblicazione della sua autobiografia “Io sono un mago” -, mentre Monica Vitti ha purtroppo visto da tempo calare la luce dei riflettori a causa di una malattia precoce e crudelissima. Con tutto questo, due magnifici talenti che insieme appartengono a una stagione della cultura e dello spettacolo oggi avviata a scomparire nei suoi protagonisti e nei suoi testimoni. Che cosa resta? La gioia di averli conosciuti e apprezzati, l’orgoglio di sapere che qualcosa di loro rimane in noi, nel nostro modo di pensare, di sorridere, di vivere.
Il distacco tuttavia non può che essere doloroso e il dolore è forse il catalizzatore più forte, l’elemento emotivo che con più energia ci spinge a realizzare la verità delle cose, a circoscrivere ciò che è veramente importante. Con Ezio Frigerio ci lascia un autentico protagonista del teatro (e del cinema), la cui lunga collaborazione con Giorgio Strehler (spesso insieme alla moglie Franca Squarciapino, straordinaria costumista) ci ha consegnato spettacoli iscritti nei manuali di storia dello spettacolo.
Dal loro rapporto abrasivo - la cooperazione avveniva non di rado partendo da basi conflittuali – sprigionava la scintilla del genio. Nel 1966 un memorabile allestimento dei “Giganti della montagna” di Pirandello al Piccolo si concludeva con un sipario di ferro che calava sulla scena a spezzare il carretto posto sulla sua traiettoria. Una trovata che lasciò il pubblico a bocca aperta, non tanto perché spettacolare, a effetto: era invece la conclusione giusta – meglio ancora: elevata – dell’incompiuto testo pirandelliano. Una soluzione di portata tale da cambiare la concezione stessa del fare teatro. Con questa, tante altre trovate: dagli allestimenti apparentemente semplici, quasi minimalisti, ad quelli giganteschi, colossali, Strehler e Frigerio, al Piccolo come alla Scala, a Parigi come su altri palcoscenici ovunque nel mondo, sempre trasformavano il loro continuo confronto in un motore di rinnovamento.
Monica Vitti, dal canto suo, ebbe l’intelligenza di prestarsi alla visione di Michelangelo Antonioni che in film come “L’avventura”, “L’eclisse” e “La notte” proiettò il suo volto a rinnovare il cinema italiano dopo la stagione del neorealismo e ad affrontare attraverso di lei, attraverso il suo corpo e il suo sguardo sgomento, temi che parevano impossibili da tradurre in immagini. Più tardi, nella sorprendente svolta della sua carriera, l’attrice consegnò gli occhi, il sorriso e una voce che sembrava scaturire dal pozzo dell’onestà al filone cinematografico che con l’ironia sapeva raccontare e fustigare i costumi italiani: la commedia, appunto, all’italiana.
Una lunga stagione di perfetta adesione della nostra cultura al reale, al vero. Una capacità di ragionare e di anticipare conflitti e contraddizioni sociali, così come di rivolgersi agli eterni paradossi dell’animo umano, con chiarezza esemplare, sia che l’impulso venisse dalla cultura “alta” sia fosse espresso da forme più popolari di intrattenimento.
È inevitabile chiedersi oggi se dietro Ezio Frigerio e dietro Monica Vitti ci siano altri Ezio Frigerio e altre Monica Vitti. L’istinto e una specie di pessimismo di sottofondo portano a dire di no: i tempi sono cambiati, la cultura è diventata un’altra cosa, manomessa forse dalla televisione, forse da logiche commerciali troppo schematiche. Resta però l’unico terreno da coltivare per sperare in un Paese meno rassegnato e chiuso in se stesso.
Di Ezio Frigerio e Monica Vitti rimane l’opera ma anche l’esempio: l’ambizione e la volontà di raccontare e raccontarsi, di credere nei progetti, nelle chance di cambiamento, nell’amore per il lavoro e per l’arte. Se tutto questo non è (più) considerato un lascito prezioso, allora siamo davvero perduti.
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