Una delle differenze tra la Lega di Bossi e quella di Salvini sta anche nella consapevolezza del Senatur di essere uno strepitoso animale politico adatto più alle piazze e ai bagni di folla che non alle istituzioni. Anche per questo è sempre stato restio a ricoprire incarichi di governo e quando è capitato lo ha fatto di malavoglia. Preferiva il partito e la gente.
E per rappresentare il Carroccio nei ministeri, al vertice dei Comuni e nelle Regioni, compatibilmente con gli equilibri interni al movimento, cercava di selezionare figure tra virgolette più “presentabili” come Irene Pivetti, piuttosto che Giancarlo Pagliarini o Marco Formentini. Tra queste rientrava anche Attilio Fontana, presidente del Consiglio regionale lombardo all’epoca “umbertina” della Lega e rimasto in auge anche in quella “salviniana” con la promozione alla guida della giunta regionale. Un signore nei modi e nelle forme, l’avvocato varesino amante del golf. Pacato, moderato, un “leghista non leghista” per molti suoi interlocutori. Una carriera tutta nelle istituzioni con pochi contatti con il partito, se non attraverso i vertici: sindaco di Induno Olona e poi della città cuore del leghismo, Varese, incarichi in società oltre all’esperienza regionale.
Adesso Fontana sta rischiando. Uscito ammaccato ma, per ora, tranquillo anche dal punto di vista politico dalla complessa gestione della devastante emergenza Covid, è incappato nell’altrettanto ingarbugliata questione dei camici prodotti dalla ditta del cognato e prima acquistati e poi, dopo che la cosa era venuta alla luce, donati su intervento dello stesso presidente regionale, alla sanità lombarda. Da qui poi il rimborso con il tentato bonifico da un conto svizzero, l’indagine della procura, la scoperta dell’eredità depositata oltre confine e in parte “scudata” cioè fatta rientrare con un’agevolazione fiscale consentita dalle leggi. Insomma un “pasticciaccio brutto” di cui i lombardi appena usciti dalla tragedia Covid avrebbero fatto volentieri a meno. Sarà la magistratura a determinare eventuali violazioni del codice penale da parte del numero uno di palazzo Lombardia. Resta però aperto al giudizio dell’opinione pubblica e della politica l’aspetto dell’opportunità dell’azione di Fontana e la sua immagine. Perché il capo di una così importante istituzione, colui che rappresenta tutti noi, dovrebbe forse essere come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto. Nell’epoca del virus, della pandemia, della paura, la fiducia nelle istituzioni è ancora più importante del solito. E l’avvocato di Varese, al di là di tutto quanto si possa dire su un’azione giudiziaria che la Lega considera ad orologeria, in un momento in cui, anche le “toghe” per colpa di qualcuno hanno seri problemi di credibilità che aprono la strada alle inevitabili strumentalizzazioni politiche, non è apparso del tutto trasparente nel gestire e spiegare la vicenda camici. Quantomeno, in alcune dichiarazioni, è apparso contraddittorio dando così la stura a sospetti e illazioni. C’è poi da chiedersi, e non per il gusto della demagogia, che effetto avrà fatto il capitale rientrato dall’estero sotto la protezione dello “scudo” fiscale su coloro che le tasse, anche quelle imposte dall’istituzione regionale guidata da Fontana, devono pagarle, magari trattenute alla fonte in busta paga, senza possibilità di agevolazioni. Per carità, il presidente, non è tenuto, in assenza di condanne definitive o altri impedimenti normativi a smettere di esercitare il suo ruolo. Però da qui in avanti dovrebbe impegnarsi, di fronte ai cittadini lombardi, a garantire la massima trasparenza in ogni sua azione, caso camici in primis. Una volta esisteva qualcosa che si chiamava “etica della politica”. Erano i tempi della moglie di Cesare, che non aveva cognati. Forse.
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