E così, fra due giorni chiuderà il celeberrimo McDonald’s di piazza San Babila. In verità, la sua fama, talmente clamorosa da essere diventata un pezzo della storia del costume italiano, è antecedente, quando il locale era ancora un Burghy. E che, come tutti sanno, negli anni Ottanta divenne il luogo simbolo, la metafora dell’epoca dei cosiddetti “paninari”.
La prossima fine di quel vero e proprio monolito generazionale è stata celebrata nei giorni scorsi da un nutrito gruppo di ex “paninari”, oggi tutti cinquantenni-sessantenni, con tanto di foto di gruppo di fronte alle vetrine del più famoso dei fast food. L’effetto, come sempre quando si parla di reduci, è patetico. Occhiaie, pelate, pance, guance cascanti, sederoni e tutto il resto delle prelibatezze che la veneranda età porta spietatamente con sé. Una scena resa ancora più triste - e pure un po’ grottesca - dallo sfoggio di vecchi piumini multicolor, Levi’s 501, Timberland e tutto il resto che ha fatto l’iconografia di quel mondo. Il mondo del “riflusso”, sgorgato impetuoso dopo la fine delle ideologie e che ha ispirato ad Altan una vignetta terribile, spietata e profondissima: “Dopo il gelo degli anni di piombo, godiamoci il calduccio di questi anni di merda”.
Se ne sono dette tante, su quel decennio, e ancora adesso le tifoserie sono così accanite da rischiare di darne una lettura ideologica, che ne estremizza i difetti o trasforma i pregi in pura idolatria. Ma ora che è passato un quarantennio e si può tentare di essere un po’ più lucidi, si può forse dire che, anche in questo caso, si è trattato di un’enorme occasione persa. Una fra le tante. Era stato un bene che l’Italia fosse finalmente uscita dalla stagione devastante degli anni Settanta, con tutto quel carico di livore ideologico, di violenza sociale, di pulsioni distruttive che hanno trovato la loro manifestazione più compiuta nel terrorismo e il loro apogeo nel caso Moro. Ed era stato altrettanto un bene che il substrato culturale che li aveva alimentati, quegli anni, entrasse rapidamente in crisi di fronte all’affermarsi della modernità e di un nuovo ciclo economico di benessere e arricchimento della classe media. La crisi di un partito-chiesa come il Pci è iniziata proprio lì e da lì non è mai uscita. Si vede anche oggi.
Era quello il momento magico. Quello il cambio di paradigma che avrebbe dovuto abbandonare una volta per tutte i paletti culturali della vecchia Italia ipersindacalizzata, occhiuta, corporativa, arretrata, sottogovernata, condannata per sempre al “regime duopolista” Dc-Pci per entrare in una fase nuova, laica, che avrebbe finalmente aperto le finestre e cambiato l’aria. Nel momento in cui crollavano le ideologie, avrebbe dovuto trionfare la libertà. La libertà di pensiero, di impresa, di mercato, di competizione, di merito, di dialogo con il mondo. Una grande ventata pura e fresca capace di offrire a tutti il famoso ascensore sociale, quello che ti permette di conquistare il ruolo che meriti, non subire quello che ti è stato assegnato da gerarchie sociali immodificabili, di fronte alle quali le capacità non valgono nulla. Perché conta l’affiliazione, la cooptazione, la prevaricazione.
E tutta quella superficialità, quel godersi la vita fuori dai vecchi schemi preconcetti che animava le adolescenziali, sprovvedute, ridicole ma, a pensarci ora, anche un po’ commoventi pulsioni di quei ragazzi tra liceo e università, tutto quel linguaggio e quei neologismi molto poco affini a “Rinascita” e ai “Quaderni piacentini” e molto invece agli spot, a “Drive In” e alle altre trasmissioni spazzatura della televisione commerciale, ai marchi di moda come riferimenti irrinunciabili - ma insomma, qui niente di nuovo: se prima eri un fallito se non avevi l’eschimo, dopo eri un fallito se non avevi il Moncler - covava dentro di sé qualcosa di sano, di fecondo, di moderno. E’ da lì, dalla liberazione, dalla festa della liberazione dai testi sacri dello studente “de sinistra”, dal diario odeporico sul viaggio in India, dalle sedute di autocoscienza, dai tazebao, dal diciotto politico e da tutto il resto di quella fuffa ignobile e sgrammaticata che tanfava di okkupazioni, di capelli unti e di espadrillas scalcagnate, che avrebbe dovuto sorgere una società nuova e aperta.
E invece non è andata così. La libertà è diventata licenza. La fine delle ideologie ha prodotto solo la fine della cultura. La voglia di intraprendere si è trasformata nella foia dell’accaparramento, il rubare per il partito è trascolorato nel rubare anche per il partito, figurarsi, ma soprattutto per sé, il senso del dovere civico delle classi dirigenti è scivolato nel mi faccio gli affari miei e alla politica ci pensino i pupazzi e i peggiori, la lotta contro uno Stato onnivoro e oppressivo si è tramutata nel chissenefrega dello Stato in quanto tale, delle sue regole e dei suoi divieti, e le tasse non si pagano e si arraffa dove si può e quando si può e si continua a fare debito per ingozzare le clientele, tanto qualcuno pagherà. Dimenticando l’immortale aforisma della Thatcher, una che gli anni Ottanta li ha interpretati sul serio: “Se pensi che qualcun altro pagherà, sappi che quel qualcun altro sei tu”.
E quell’occasione sprecata, quel deficit culturale che non ci ha permesso - tutti: politici, imprenditori, associazioni, sindacati, media, cittadini - di essere all’altezza della sfida della modernizzazione ha poi inevitabilmente portato al disastro degli anni Novanta, al tartufesco puritanesimo moralista e giudiziario con il quale ci siamo illusi che ammazzando la politica - la prosecuzione degli anni Settanta con altri mezzi - giustizia sarebbe stata fatta. Senza capire che se la politica muore - e la politica è morta e sepolta: non fatevi ingannare da quei quattro scappati di casa che berciano in televisione - allora comanda qualcun altro. La finanza. Lo Stato profondo. La magistratura.
E’ questo, di certo, il panino più indigesto che ci ha servito il mitico Burghy.
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