Il Mes, chi era costui? Pare che esistano più italiani a conoscenza del significato della “mirra”, che ormai ci siamo, che non di quello del fondo salva stati, salva banche, salvati tu che a me ci pensa il buon Dio. E allora qui non c’entra il Manzoni con il suo Carneade. Il Mes-chi-era-costui è solo un protesto sullo sfondo di una storia da feuilleton di fine Ottocento, una storia d’amore infelice come tante che videro vittime e protagoniste tante innocenti e illibate fanciulle d’antan e fecero sospirare altrettante pulzelle in fiore in perenne attesa della puntata successiva, e che non sia mai l’ultima. Che invece sarebbe da agognare questa volta perché questa volta per un amore (politico eh, per carità) infelice è lui: Giggino. O sventurato, costretto dal padre padrone Beppe, per salvare il patrimonio di eletti di famiglia, a promettersi a quel Nicola del Pd così freddo, noioso e incolore, mica come il fratello uscito dai romanzi di Camilleri. Un matrimonio di interessi, celebrato poi, sale sulla ferita del cuore, da quel cardinal Giuseppi più spregiudicato di un Mazzarino che pure aveva benedetto l’altra unione, quella che in fondo lo sventurato Giggino brama con quel Matteo ribaldo e sfacciato ma a cui è difficile resistere (sempre di politica stiamo a narrare). Un ritorno di fiamma che entrambi non disdegnerebbero dopo che la loro storia di una sola estate era svanita forse tra i fumi di quell’assenzio che oggi chiaman Mojito, caduta tra le stelle di San Lorenzo.
Tra Matteo e Giggino, oltre a Beppe, Nicola e il cardinal Giuseppi, però si è posta anche Giorgia occhi di bragia, femmina arrembante che dopo aver preso per il colletto della dolcevita Matteo gli ha detto “ah oh, ma la vuoi pianta’ co’ sta fissa de Giggino? Non sa da fa se ambisci alle mie grazie sotto forma di voti per scalare il palazzo e scacciare il cardinal usurpatore. E poi c’è l’altro Matteo, maramaldo di ceppo toscano come il Machiavelli. Pronto a vestire i panni di una Contessa di Castiglione risorgimentale e flirtare con chiunque le possa riaprire le porte del grande palcoscenico, fosse anche l’omonimo. Sarà mica alle viste, dopo quello del Nazareno, un altro patto verso destra, quello del Papeete, luogo che evoca tanti dolori dell’anima per Giggino? Ed ecco perché, per lui, sono tempi grami. Poi hai voglia che uno possa fare il ministro degli Esteri in questa condizione di abissi dell’infelicità, che riesca a occuparsi dei cimenti liberi d’Oltremare, o della Cina ancor più vicina della rotta del Catai di Marco Polo. Si strugge Giggino, o mangiare la minestra insapore servita al desco del Cardinal Giuseppi da Nicola o saltare la finestra e ritrovarsi diseredato dal crudele babbo Beppe e affidarsi alla carità del reddito di cittadinanza.
Sventurato lui ma ancor di più la terra che tocca. Con il governo ostaggio del capricci di cuori più zingari di quello cantato da Nicola Di Bari. Certo, nessuno può invocare il “che colpa ne ho” delle canzone. Né Giggino, né Beppe, né Nicola, né l’ambo dei Mattei. Perché un’Italia che è rotolata nel terzo millennio non può vivere ai ritmi dei feuilleton di due secoli fa. Per giunta piuttosto scadente vista la qualità dei personaggi. Le questioni di cuore, in politica hanno fatto il loro tempo. E allora Giggino si decida, l’unico amor che deve contare è quello patrio. E gli altri si adeguino, qualunque sarà il loro destino. Questa storia, che anziché strappare lacrime fa solo salire conati di rabbia, come non ce ne fossero abbastanza in giro, veda stampata la parola fine. E pazienza se non sarà lieto per tutti.
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