Quando Giancarlo Giorgetti ha lanciato la bomba, le cui schegge erano scientemente dirette anche a Salvini, che conteneva la proposta di eleggere Mario Draghi al Quirinale con una “delega non scritta” sul governo, magari presieduto dal “dottor Sottile” della Lega e l’instaurazione di un semipresidenzialismo “de facto”, alle vestali della Costituzione, sono venuti i capelli dritti. Ma come, la forma istituzionale non si può cambiare così, c’è un iter previsto dalla stessa Carta, cose da pazzi e così via. Tutto vero, tutto giusto, tutto corretto. Anche se, per cambiare lo status della Repubblica probabilmente non basterebbe il tempo di due mandati del Capo dello Stato.
Pochi però si sono soffermati sulla parte finale del ragionamento dello scomodo (per l’uno) numero due del Carroccio. Il ministro allo Sviluppo Economico, infatti, ha affermato che una simile condizione sarebbe favorita dalla debolezza della politica che consentirebbe agevolmente a una personalità come Draghi di utilizzare al Quirinale il metodo di palazzo Chigi: decide lui, assieme ai pochi ministri di cui si fida e i partiti o si adeguano o si arrangiano.
Perché il sistema istituzionale italiano è stato costruito proprio dai Padri costituenti con un’ingegneria di pesi e contrappesi, in modo da scongiurare pericolosi squilibri di potere in un Paese che arrivava da vent’anni di dittatura. Il tutto con la consapevolezza di una legge non scritta per cui in politica ogni vuoto finisce sempre per riempirsi. E allora chi ha buona memoria ricorderà che questa architettura ha retto benissimo durante la Prima Repubblica, ma non nella Seconda quando tentativi di semi presidenzialismo “de facto” messi in atto dagli inquilini del Colle sono riusciti perché il contrappeso non era così robusto, al contrario del passato.
Bisogna andare indietro fino agli anni ’60, alla nascita del centrosinistra di governo, con il democristiano moderato Antonio Segni al Quirinale per registrare la prima incursione, addirittura, secondo l’allora leader del Partito Socialista Pietro Nenni, attuata attraverso lo “stridor di sciabole”, cioè l’ombra di un colpo di Stato militare, una tesi, va detto, mai suffragata dai fatti. È certo però che la svolta a sinistra imposta da Aldo Moro alla Dc dopo un oceanico e criptico discorso al congresso Dc di Napoli del 1963, non fosse gradita da Segni, peraltro scelto anche per rassicurare la parte più moderata della “Balena Bianca”. Il tentativo del presidente non riuscì, se non a ridurre un po’ la radicalità del programma di governo. E l’intensità dello scontro con Moro, Nenni e il segretario socialdemocratico Giuseppe Saragat fu una delle concause della grave malattia invalidante che costrinse il capo dello Stato alle dimissioni.
A succedergli fu proprio Saragat, che, dopo la strage di piazza Fontana, venne tentato dal semipresidenzialismo “de facto” e propose al governo di sospendere alcune garanzie costituzionali. Ma anche qui non se ne fece nulla per l’opposizione dei partiti. Stesso ragionamento, con forme diverse, può valere per Sandro Pertini, socialista e presidente più amato dagli italiani anche per alcune “esternazioni” che colpivano il sistema politico. La più famosa fu il discorso in tv (senza una telecamera o un microfono davanti il presidente non apriva bocca) per criticare i ritardi nei soccorsi dopo il terremoto dell’Irpinia nel 1980, nonostante il parere contrario dell’alora capo del governo, Arnaldo Forlani. Anche in questo caso le conseguenze furono scarse: saltò il prefetto di Avellino, mentre le dimissioni del ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, furono subito ritirate.
Dopo Pertini arrivò Francesco Cossiga che, nella seconda parte del suo mandato chiuso in anticipo con dimissioni polemiche, cominciò a “picconare” governo, parlamento e altre istituzioni. L’atto più clamoroso fu il messaggio destinato alle Camere, in cui dal Colle si demoliva tutto il sistema e si pretendevano riforme urgenti e radicali. Il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti potè addirittura permettersi di non controfirmare la missiva, come invece prevede la prassi costituzionale, che diventò così carta straccia.
Con Cossiga però finì la Prima Repubblica. Ed è curioso notare come sia stato proprio il successore del politico sardo, Oscar Luigi Scalfaro, parlamentarista fino al midollo e mettere a segno il primo tentativo di semipresidenzialismo “de facto”. Accadde quando venne meno la maggioranza che sosteneva il governo di Silvio Berlusconi e il capo dello Stato, anziché sciogliere le Camere, nominò Lamberto Dini premier con una coalizione diversa, non prima di aver garantito al Cavaliere che comunque si sarebbe andati presto alle elezioni anticipate. Una promessa che rimase tale. Intendiamoci, Scalfaro, agì nel pieno delle prerogative costituzionali: il presidente, prima di sciogliere le Camere, ha il diritto di verificare l’esistenza di una qualsiasi maggioranza. Chiaro però che il governo Dini non esprimeva il “sentire” della maggioranza del paese.
Un altro colpo riuscito di semipresidenzialismo “de facto” fu quello attuato da Giorgio Napolitano nel 2011 e sempre ai danni di Silvio Berlusconi. Con l’Italia sull’orlo del default, il Colle prese l’iniziativa di sostituire il presidente del Consiglio con Mario Monti, neppure parlamentare, ma che tranquillizzava i governi dei partner europei ed evitò il disastro finanziario. Al di là delle finalità del tutto condivisibili, quella dell’ex esponente migliorista del Pci fu una clamorosa invasione nel campo delle prerogative del Parlamento e dei partiti che però erano troppo deboli per reagire. Anche la nomina di Mario Draghi al posto di Giuseppe Conte è stata una mossa all’insegna del semipresidenzialismo “de facto” da parte di Sergio Mattarella. Alla fine, insomma, Giorgetti qualche ragione ce l’ha.
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