La folla. La massa. Il branco. La gente. La gente bavosa, assiepata e ululante. Il popolo. Il popolo bue. Le truppe cammellate. Gli ultras. La Suburra. L’assalto ai forni. Il Golgota. Il linciaggio. Il linciaggio psicologico. Il linciaggio mediatico in diretta televisiva.
Tra le innumerevoli cose schifose delle guerre, da una parte e dall’altra, e in particolare di quella di Gaza, provocata dal genocidio di Hamas del 7 ottobre del 2023 e seguita dai crimini di guerra di Israele nell’anno e mezzo successivo, ce n’è una particolarmente grave. Non tanto da un punto di vista del bilancio delle vittime - non è morto nessuno, nessuno è stato rapito e ucciso - ma da un punto di vista simbolico. E sappiamo tutti quanto i simboli contino. I simboli pesano. I simboli sono pietre, proprio come le parole.
Il rilascio di uno degli ostaggi ebrei in mano alle milizie islamiche, la trentenne tedesco-israeliana Arbel Yehud, avvenuto in modalità da reality show qualche giorno fa a Khan Younis, è una delle pagine più degradanti e avvilenti della storia recente del Medio Oriente. Ci sono foto (e video) della giovane, costretta a scendere dal van dei sequestratori e a raggiungere a piedi il personale della Croce Rossa attorniata dai miliziani e spintonata da una folla insultante e minacciosa, che parlano da sole. Sempre che qualcuno abbia voglia di vederle. Sono immagini terribili, metaforiche, addirittura ioniche, che dicono tutto delle guerre, di quella guerra in particolare, ma che dicono anche tutto degli esseri umani.
Bene, a fronte di questo fatto di cronaca, fatto di cronaca assolutamente minore e che quindi, come tutti i fatti minori, si dimostra sempre più significativo di quelli maggiori, possono essere fatte due considerazioni.
La prima è l’assordante silenzio che queste immagini hanno raccolto attorno a sé da uno specifico ambiente che invece, secondo logica, sarebbe il primo interessato a uno sfregio di questa portata. C’è qualcosa di più violento, di più maschilista, di più machista, di più sessista del vero e proprio calvario che è stato imposto ad Arbel Yehud? C’è qualcosa di più orribile del trattamento riservato da maschi armati e mascherati a questa giovane donna innocente? Certo, c’è qualcosa di peggio. E’ quello che è stato fatto a tutte quelle come lei il 7 ottobre, quando, a centinaia, sono state picchiate, sequestrate, stuprate un tale numero di volte e da così tanti soggetti diversi da provocarne la frattura del bacino - la frattura del bacino! - seviziate, uccise, squartate (comprese le donne incinte), mutilate degli organi sessuali, coperte di escrementi. Per non parlare di quello a cui sono state sottoposte quelle rimaste sotto chiave per più di un anno.
E non si è sentita una voce, non si è udito un moto di protesta, di scandalo o di denuncia, non si è organizzato un corteo, un sit in, una raccolta di firme, un apericena progressista e, ovviamente, indignato da parte delle meravigliose femministe 4.0 che infestano i nostri giornali, le nostre televisioni e i nostri social, probabilmente troppo impegnate a discettare su temi fondamentali, urgenti e dirimenti quali “non si dice sindaco, ma sindaca!”, “non si dice direttore”, ma direttora!!” e, soprattutto, “non si dice architetto, ma architetta!!!”. Non c’è una riga, un post, un tweet, un reel sulla dignità calpestata di questa povera ragazza da parte delle nostre Emmeline Punkhurst da quattro soldi. Niente, niente di niente. Una fischietta, l’altra riflette - pensosa – sull’identità di genere, un’altra ancora combatte il patriarcato facendo vedere il sedere sul palco di Sanremo e tutta questa fuffa, questo perbenismo, questo conformismo, questo benaltrismo, a fronte di certe immagini - perché, le donne ebree non sono donne? non lo sono abbastanza? sono donne di serie B? sono eredi di quelli che hanno crocifisso Nostro Signore? sono cesse? sono usuraie e nasone? - è una roba che fa senso, una roba che fa schifo, una roba che fa vomitare.
C’è poi una seconda considerazione, che non riguarda le miserabili miserie della miserabile culturetta terzomondista della nostra miserabile e abborracciata classe intellettuale. Ed è una considerazione più vasta, più profonda, che attiene non a questi giorni specifici, ma a qualcosa di eterno. Alla condizione umana. Che, per sua natura, è sempre la stessa e non cambia mai. E che si basa su un pilastro inscalfibile. La solitudine. La paura e la solitudine. L’ingiustizia, la paura e la solitudine. Negli occhi di Arbel Yehud - che sono gli stessi occhi di una ragazza palestinese della Cisgiordania inseguita dai coloni ebrei ultra tradizionalisti: non è questo il punto, i lettori intelligenti l’hanno già capito - c’è il terrore. Il terrore puro. Il terrore nel suo stato più assoluto. Un agnello in mezzo ai lupi. Una persona inerme, debole, indifesa e innocente che trema per la sua vita. Sai che novità. E’ sempre così che funziona. Non c’è mai nessun rispetto, nessuna pietà per gli sconfitti. Nessuno li protegge, nessuna offesa gli viene risparmiata, nessuna ferita, nessuna infamia ed è così dai tempi dei tempi, perché il destino loro - il destino nostro – è quello di dover subire i colpi dell’esistenza senza alcuna responsabilità e senza potersi mai difendere. Il debole, alla fine, perde sempre.
C’è tutta l’ingiustizia della vita in questa orribile, e al contempo pedagogica, fotografia. Perché proprio a lei? Cosa ha fatto per meritarselo? Come è finita in quel gioco al massacro? Che senso ha tutta questa pantomima, tutta questa messa in scena, tutto questo dolore? E quanti milioni e milioni di persone si pongono ai quattro angoli della terra la stessa identica domanda oggi e fin dalla notte dei tempi? E il dramma è che non c’è risposta - o almeno una risposta che noi poveri mortali possiamo capire - ma solo l’eterno ripetersi del sempre uguale. Gaza è un inferno e un inferno è il mondo, un piccolo vecchio sasso popolato da vittime, da anime tormentate e da demoni.
@DiegoMinonzio
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