All’inizio degli anni Sessanta Italo Calvino pubblicò il romanzo breve “La speculazione edilizia”, che assieme a “La nuvola di smog” e al magnifico “La formica argentina” costituisce la trilogia realistico-balzachiana della sua vasta, importante e celebrata produzione.
Calvino è stato un narratore di assoluto livello, di notevole spessore umano e culturale, anche se i grandissimi del secondo Novecento italiano sono probabilmente altri, Arpino, Flaiano, Berto e i Levi, ad esempio - e soprattutto il formidabile Carlo Emilio Gadda - ma in questo romanzo tocca delle corde profondissime e regala un respiro universale, da vero classico, allo scempio edilizio e urbanistico che dagli anni Cinquanta in poi ha devastato in modo sciagurato e irreversibile le coste liguri, in particolare la riviera di ponente. Calvino era di Sanremo - ne “Il barone rampante” se ne respira l’aria - e chiunque conosca bene quella città e la sua storia e abbia avuto modo di vedere qualche foto degli anni Trenta per poi confrontarla con le corrispettive immagini degli anni Settanta capirà perfettamente cosa significhi distruggere sistematicamente un territorio, distruzione che ha poi fatto scuola in tante aree pregiate italiane. Lago di Como compreso, ovviamente.
Bene, questo libro è molto utile e magistralmente metaforico come chiave di lettura dello scandalo che nelle settimane scorse ha terremotato la giunta regionale ligure con l’arresto del presidente Toti e tutto il resto che ben conosciamo. Il tema non è l’inchiesta con relativo strascico di intercettazioni, verbali e chiacchiericcio pruriginoso al seguito - questa è prassi nella repubblica delle banane - e non è neanche la sensazione che di buona parte di questa vicenda non rimarrà nulla, visto che il fatto di essere buzzurri, sboccati e puttanieri non prevede un rilievo penale, questo lo decideranno i magistrati, i processi, siamo tutti garantisti e bla bla bla.
La cosa più interessante è come – ripetiamo, al netto degli eventuali profili giudiziari - il vuoto culturale, il degrado etico e la totale assenza di una strategia edilizia, di una visione urbanistica volta alla tutela della ricchezza ambientale e a uno sviluppo sostenibile abbia ridotto una delle costiere più belle del mondo in un suk dove a fianco di ville da nababbi si accalcano tuguri da Maghreb e palazzine da periferia latinoamericana, oltre al rischio idrogeologico e tutto il resto che ben conosciamo. La commistione amorale tra la politica del consenso, le orde dei palazzinari, il miraggio del facile guadagno parassitario che vediamo aleggiare pure in questa faccenda - ribadiamo, anche se non è detto che sia penalmente perseguibile - è raccontato in maniera esemplare e con leggiadra ferocia da Calvino nel romanzo, che rappresenta la storia di un fallimento individuale all’interno di una decadenza collettiva, certo economica, ma soprattutto etica.
La figura dell’intellettuale comunista in crisi - una figura classica, da Gramsci a Nanni Moretti - che alla morte del padre si butta in un tentativo di speculazione e che assieme al fratello convince la madre a vendere i terreni di proprietà affidandoli a un maneggione, a un traffichino, a un ex muratore affarista che lo abbindola con la fanfaluca di facili guadagni, è un’esperienza che chissà in quanti abbiamo fatto. Uscendone tutti quanti con le ossa rotte: ti sei fatto fregare dal faccendiere o ti sei fregato da solo, perché sei diventato come lui. O pure peggio.
Ed è proprio così che vanno le cose ne “La speculazione edilizia”. Il malcapitato protagonista finisce avvolto nella ragnatela tesa da avvocaticchi forforosi, notai di dubbia fama, ingegneri collusi, infidi intermediari, tutti a ingolosirlo con la favola degli appartamenti da costruire prima e da vendere poi a peso d’oro traendone così delle grandi fortune. E lui abbocca. Come Pinocchio con il Gatto e la Volpe.
C’è tutto il basso impero della bassa politica, in quelle pagine, la palude degli amici degli amici, dei cerchi magici, dei familismi amorali, una terra di nessuno – a partire dallo Stato, ovviamente - dove non esiste mercato, non esiste concorrenza, ma solo lo scalpiccio dei favori e delle speculazioni, appunto. Insomma, è il ritratto di quella che Calvino definisce giustamente “un’epoca di bassa marea morale” che è destinata a travolgere il protagonista - la vicenda finirà nel più tragico e grottesco dei modi - “perché in questo gioco sono sempre i peggiori che vincono, e fallire è proprio quello che lui in fondo desidera”.
E’ un libro ideato, nella sua prima versione, alla fine degli anni Cinquanta, ma sembra scritto oggi. Anzi, domani, viste le porcherie che si sono realizzate, e le altre che si apprestano, anche sul nostro lago e alle quali questo giornale non ha mancato di riservare la sua attenzione. Ed è un testo esemplare, questa la cosa ancora più profonda, perché va al di là dell’epoca storica, del ruolo dell’intellettuale di sinistra nell’Italia del dopoguerra e della mera denuncia politico-sociale, per svelarci come siamo fatti noi. Noi esseri umani. In ogni epoca e a ogni latitudine. E siamo fatti male.
Secondo Balzac, analista unico e inarrivabile della corruzione morale e della scalata al potere, l’avidità inizia quando finisce il bisogno. Appena esci dallo stato di necessità, appena la casa, la luce, l’acqua, la spesa, insomma, le esigenze primarie sono bene o male soddisfatte, appena la povertà finisce, immediatamente nasce la foia del guadagno, dell’avere, del possedere, a qualunque costo, pagando qualsiasi prezzo, e così tracima l’insoddisfazione piccolo borghese, l’infida, fanghigliosa e micragnosa ideologia della roba, la roba verghiana, che la migliore scuola, la migliore famiglia e la migliore politica potrebbe contenere e limitare e che invece la peggiore famiglia, la peggiore scuola e la peggiore politica sbandierano come arma di consenso di massa.
Ma hanno ragione loro, proprio come diceva Calvino. Sono sempre i peggiori quelli che vincono.
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