Non è più l’area economica più libera del mondo. Non è più niente.
Ovvero: è Cina. Per Hong Kong, da anni ormai alla resa dei conti tra la sua aspirazione (illusione?) di autonomia e le progressive mosse di normalizzazione autoritaria imposte da Pechino, è arrivata la sentenza più dura, quella che, mettendola fuori gioco, non solo ne riduce la forza economica e la ricchezza, ma ne annulla anche l’identità: “Hong Kong ormai è quasi indistinguibile da altri importanti nodi commerciali cinesi come Shanghai e Pechino”. Non è una promozione, tutt’altro: sta a significare che Hong Kong, ufficialmente ancora una regione autonoma della Repubblica popolare, è ormai Cina a tutti gli effetti e chi volesse fare affari laggiù sa cosa aspettarsi: un mercato libero fino a quando lo decide il Partito, scarse garanzie su brevetti e copyright (nonostante leggi altisonanti dicano il contrario), burocrazia fangosa quando non corrotta.
Hong Kong aveva costruito la sua fortuna sull’esatto contrario: poche tasse, mercato libero aperto alla concorrenza più spietata, ma anche trasparenza finanziaria e un sistema giudiziario autonomo, in grado di offrire protezione a tutti, operatori stranieri compresi.
Tutto sparito, a quanto pare. A dirlo – è vero – non è un’autorità assoluta e insindacabile, ma un ente privato, la Heritage Foundation, un think-tank americano di orientamento conservatore il quale, ogni anno, pubblica la classifica dei Paesi e dei territori a suo giudizio più “liberi” dal punto di vista economico. Per quanto proveniente da un ente tutt’altro che sopra le parti, la valutazione era importante per Hong Kong, una città che certo non può contare su materie prime e forze produttive (la competizione con Cina e Taiwan sarebbe persa in partenza), ma solo sul suo spirito “can do”, sull’iniziativa commerciale, ovvero sul dinamismo degli scambi accompagnato dalla semplicità e dalla chiarezza delle regole.
Dopo aver dominato per anni la classifica della Heritage Foundation, Hong Kong è ora sparita dal ranking. Non scesa, non sprofondata: sparita. Secondo il think-tank americano non ci sono più le condizioni per parlare di libertà economica. Così come non ci sono in Cina, dove il capitalismo-comunista come inteso dal Partito unico non soddisfa certo i parametri di tutela dell’iniziativa individuale richiesti dall’Occidente.
La libertà economica non corrisponde a quella politica, si capisce. Anche Singapore, altra enclave di preponderante etnia cinese, è spinta da una delle economie più libere del mondo, ma questo non significa che sia una società in cui la personale libertà degli individui è garantita.
La città-stato è invece soggetta a una democrazia paternalistica - invenzione di un personaggio singolarissimo, Lee Kuan Yew, padre-padrone di Singapore fino a quando ha ceduto lo scettro al figlio Lee Hsien Loong – dove per qualche banale violazione invece della multa si rischiano vergate sul sedere. Hong Kong dunque potrebbe riguadagnare la sua libertà economica senza per questo diventare un esempio di democrazia: non lo è mai stata, d’altra parte, né ora né durante la dominazione coloniale britannica.
In mancanza di un’autodeterminazione formale, Hong Kong era però riuscita a inventarsene una basata proprio sul lavoro duro, sull’apertura all’opportunità, all’occasione da cogliere per migliorare. Questo aveva formato una società aperta al mondo, ai contatti internazionali, nella quale erano fiorite scuole e università, oltre a un’editoria diversificata, una stampa libera e aggressiva e perfino un’industria cinematografica che, accanto a pellicole commerciali, aveva saputo produrre opere di notevole spessore culturale. Finita la libertà economica, finirà anche questa apertura intellettuale e se non sfiorirà da sé ci penseranno gli arresti, i processi, le elezioni pre-condizionate e la propaganda “patriottica” a cancellarla del tutto. Per chi ha conosciuto “l’altra” Hong Kong, un delitto imperdonabile.
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