La leggenda narra che alle prime avvisaglie del tramonto che lo attendeva e che lo avrebbe messo tragicamente fuori scena qualche anno dopo, Benito Mussolini coniò il memorabile aforisma: “Governare gli italiani non è impossibile, è inutile”.
In verità, non è neppure certo che lo abbia detto lui, o solo lui, visto che questa acutissima e spietata analisi della natura di un popolo balzano e anarcoide è stata attribuita anche a Giolitti, politico di ben altra pasta del duce, e addirittura a Churchill dopo il 25 luglio.
Però piace pensare che sia farina del suo sacco, italiano come nessuno, italiano assoluto, arci italiano, perché solo un arci italiano poteva nascere socialista e morire fascista, così come solo un arci italiano di grandissimo talento e narcisismo come Malaparte poteva essere fascista e anche comunista. Ma questa è un’altra storia.
La cosa che conta è quanto quella massima fosse vera e quanto sia vera anche oggi, mentre impazzano le polemiche, le coltellate alla schiena, i ricatti e le polpette avvelenate nella costruzione dell’alleanza di centrosinistra, con alcune liti da cortile davvero spassose, ma che, per quanto si vedano meno in superficie, continuano a terremotare pure quella di centrodestra, che tali e tanti sono gli odi, gli scontri di potere, le delimitazioni di territorio, le diffidenze reciproche - prima fra tutte, l’assoluta insofferenza psicologica di Berlusconi e Salvini nel dover prendere ordini da una donna… - da farne prevedere un’esplosione appena dopo le elezioni, quale ne sia l’esito.
Ma questa non è una sorpresa. È solo l’ennesima conferma di quanto tutta la retorica sulla rivoluzione maggioritaria in Italia, nata giusto un trentennio fa sull’onda dei referendum lanciati da Mario Segni si sia dimostrata per quello che era. Pura retorica, appunto. Costruzione a tavolino. Sovrastruttura intellettuale tanto, ma tanto alla moda che è stata imposta, anche con le migliori intenzioni, per carità, a un corpaccione che nulla aveva a che vedere con quel mondo, con quei criteri, con quella cultura, del tutto difforme dalla storia italiana.
A prima vista, il ragionamento sembrava coerente. Visto che l’Italia repubblicana è stata segnata da una endemica conflittualità e instabilità del sistema politico - i governi sono sempre durati un biennio, anche se guidati da politici di altissimo livello, che a confrontarli con quelli di oggi viene da piangere - con il paradosso della massima instabilità dentro una cornice di assoluto immobilismo, di qui la Dc, eternamente al governo, di lì il Pci, eternamente all’opposizione e al sottogoverno, punto e fine, allora bastava togliere il proporzionale, braccio armato dello status quo, per permettere finalmente agli italiani di stare di qua o di là.
Facile, vero? E infatti, trent’anni di maggioritario, o para maggioritario o semi maggioritario, che tali e tante sono state le successive riforme, spesso ignobili, tutte inutili, sono equivalsi a trent’anni di assoluta instabilità. Sia che governasse il centrosinistra, il centrodestra o i tecnici: sempre governi biennali, o comunque squassati da scissioni, epurazioni, tradimenti, doppi binari, doppi forni e proliferazione di partiti e partitini e movimenti e bla bla bla. Neppure Berlusconi all’apogeo, con cento deputati di maggioranza, ci è riuscito.
Non funziona. In Italia il maggioritario non funziona. Non ha mai funzionato né funzionerà mai. Non è necessario aver letto Guicciardini – ma se lo hai letto, invece di passare il tempo a farti i selfie con i maritozzi o la pasta con le sarde e le altre pagliacciate per far vedere alla casalinga di Voghera quanto sei uguale a lei, magari i nostri statisti lo avrebbero compreso già da un po’ - per capire che i sistemi politici e le leggi elettorali emanano dalla storia di un paese, dalla sua cultura, dal suo profilo antropologico. E che gli italiani non sono anglosassoni con le efelidi, non sono gente che spacca la mela - e il mondo - a metà, che non ha avuto la rivoluzione americana né quella francese né quella protestante, che nei suoi duemila anni di storia è stata invasa da tutti, si è prostrata a tutti, si è messa d’accordo con tutti, è sopravvissuta a tutti, vive di mille campanili ed è ancora riassunta nello sprezzante aforisma di Kipling – “un italiano: un bel tipo; due italiani: stanno già litigando; tre italiani: tre partiti politici” - e che tutto questo è l’esatto contrario del maggioritario.
Sarebbe molto più saggio volare basso. E seguire un percorso più aderente alla nostra natura e alla nostra “educazione” rispetto a quello anglosassone e francese, che è quello tedesco, che anche nella sua storia patria, basti solo pensare a come è avvenuta l’unificazione, è molto più simile a quello italiano. E cioè con una legge proporzionale che non snaturi il nostro modo di essere, ma che tramite una soglia di sbarramento seria (5%) e non aggirabile con i soliti trucchetti garantisca un po’ di stabilità e permetta a tutti di presentarsi per quello che si è senza costringere i partiti dentro alleanze-galera con gente che non c’entra niente con loro, solo perché altrimenti “vincono gli altri”.
Se fa sorridere l’iperliberista Calenda associato al veteroecologista Bonelli, fa anche sorridere il ceto produttivo europeista del nord che vota da sempre Lega e Forza Italia assieme ai veterostatalisti “romani”, tutti sovvenzioni, prepensioni ed elargizioni presenti negli stessi partiti e pure in Fratelli d’Italia. E fa addirittura ridere vedere gli imprenditori della Lombardia e del Veneto che vogliono assolutamente più migranti per le loro fabbriche senza personale e i nostri feldmarescialli che hanno appena sobriamente ripreso a ululare “dagli al negro!” e “affondiamo i barconi!”. Che cosa c’entrano questi con quelli? Eppure, destra e sinistra, stanno tutti a raccontarci la favola di quanto siano uniti, adesi e coesi.
Torniamo sempre lì: in Italia l’unico maggioritario che vince sempre è quello dei cacciaballe.
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