Il banchiere al governo
è “merito” dei 5Stelle

Anche per aprire una scatola di tonno bisogna avere capacità, altrimenti si rischia di combinare un pasticcio con la latta che finisce nella carne e l’olio che fuoriesce. Ed è quello che è accaduto in politica grazie ai Cinque Stelle che avevano dichiarato questo obiettivo per il Parlamento italiano.

E adesso si ritrovano genuflessi e adoranti davanti al banchiere, tecnocrate ed europeista fino al frammento più recondito del suo Dna, Mario Draghi, che in fondo, alla fine è “un grillino” anche se forse non lo sa. Certo, la crisi e l’implosione del governo Conte 2 non è responsabilità del Movimento Cinque Stelle, ma lo scadimento della qualità del nostro ceto politico che ha portato il presidente Mattarella a chiamare il riluttante ex presidente della Bce, in buona parte sì. È anche figlio del tentativo pentastellato di buttare via tutto quello che c’era senza saper costruire altro salvo vacui e iperbolici slogan con il famigerato “uno vale uno” che, in politica, non ha alcun senso. Certo, Crimi, Di Maio, il pifferaio Beppe che, ci avete fatto caso?, continua a offrire spettacoli tragicomici ogni qual volta si palesa, hanno trovato un sacco di involontari compagni di strada: dalla Lega salvinizzata, al Pd indeciso a tutto, a Forza Italia incapace di qualunque azione non ispirata dal suo logoro leader.

Il risultato è quello che stiamo vedendo. Con l’ennesima, ma molto pesante, botta al sempre più utopistico “primato della politica” che aveva qualificato la Prima Repubblica, sostituito da quello neppure dell’economia, ma addirittura della finanza, il mondo che ha allevato Mario Draghi. Complici di questa situazione anche i tanti italiani che, nel 2018 epoca di voto quantomai fluido, hanno detto “ma sì, proviamo anche questi”, oppure, come già capitato, hanno scaricato nell’urna tutto l’astio verso i privilegiati “lorsignori” rintanati nei palazzi.

Sono stati tanti, allora quelli che hanno fatto questa scelta: oltre il 30% di votanti. Relativamente tanti: in realtà, considerati coloro che hanno votato altrove, sommati a chi è rimasto a casa, una minoranza, sia pur rumorosa. Ma tanto è bastato per creare una cultura anti politica, sfociata nella demagogica legge per il taglio dei parlamentari, a cui tutti o quasi si sono accodati, che, pur modificandosi e addolcendo gli spigoli cammin facendo, ha prodotto quel vuoto pneumatico che ora dovrà riempire Draghi con il suo governo dei tutti o quasi che, si spera, restino almeno un passo indietro.

La nostra fortuna è che il banchiere svezzato dai gesuiti, ha già avuto modo di doversi muovere da politico quand’era al vertice della Banca centrale europea in uno dei momenti più critici della giovane vita dell’euro.

Ed è stata una politica alta, mica il bonus motorino o il reddito di cittadinanza e la quota cento. Si trattava di salvare la moneta comune e di fatto l’unità del Vecchio Continente. Per farlo Mario Draghi non ha esitato ad opporsi ad Angela Merkel e ai falchi della Bundesbank che puntavano a trasformare l’Italia in una seconda Grecia. Alla fine però, e per uno dei paradossi di cui si nutre la politica, sarà SuperMario a dare ripetizioni ai leader dei partiti. Nella speranza che, almeno qualcuno, possa far tesoro della lezione.

Altrimenti quando il presidente del Consiglio incaricato avrà terminato il suo soggiorno a palazzo Chigi magari per trasferirsi al Quirinale con l’obiettivo di vigilare sulla prosecuzione del lavoro avviato, non si sa quel che potrà succedere. Perché anche le spalle della democrazia a furia di reggere carichi imprevisti non sono più così robuste come un tempo.

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