Forse è vero che tutto si tiene. “Roccia” Burgnich ha scelto di raggiungere alcuni compagni nel ritiro più in altura che ci sia proprio quando il nostro calcio sta impazzendo in maniera definitiva, come la maionese manipolata da uno chef malaccorto. I casi di Donnarumma e Conte devono apparire inconcepibili a chi ha vissuto un’epopea del pallone in cui le “bandiere” (come il suo Sandrino Mazzola) non le pesavi un tanto al chilo e gli allenatori che vincevano un campionato ringraziavano la società e il presidente per aver allestito una squadra molto competitiva e si accontentavano di un ritocchino dell’ingaggio per la stagione successiva.
Un calcio in cui chi andava in campo aveva sulle spalle numeri dall’1 all’11. Era facile mandare a memoria le formazioni: il tormentone “Sarti, Burgnich, Facchetti…” lo conoscevano anche quelli che non tifavano per l’Inter. Oggi, con queste rose pletoriche si fa fatica a tenere a mente un nome. Gli schemi erano lineari, in difesa, quasi sempre, il 2 come Tarcisio, doveva incollarsi all’11 avversario per impedirgli di tirare in porta, il 5 faceva lo stesso con il 9. Lo spartito era più semplice, perché al contrario di quanto avviene oggi, contavano gli interpreti per riuscire a renderlo memorabile. Il ritmo era più basso, la tecnica più alta.
Giocate che ora impegnerebbero decine di replay e orgasmici commenti, erano liquidati dai telecronisti come faccende ordinarie. Nils Liedholm, tanto per dirne una, fu sommerso dagli applausi di San Siro quando finalmente sbagliò un passaggio. Mazzola fece un gol in Coppa dei Campioni (non Champions League) che Ronaldo e Messi se lo sognano. Rivera lanciava da trenta metri e sapeva già dove sarebbero stati per ricevere la palla Prati, Sormani, Chiarugi, Bigon o Maldera. Gli stadi erano stipati, anche quelli costruiti per contenere decine di migliaia di persone. Adesso affollata, sempre meno, è l’audience delle tv. Le partite trasmesse costituivano merce rara e perciò si guardavano tutte. Anche quelle di coppa trasmesse da oltrecortina con un sibilo continuo nell’audio dovuto, con ogni probabilità, a un’interferenza con qualche apparecchio di intercettazione, molto utilizzato da quelle parti. Sulle maglie e i colori sociali di ieri e oggi non vale neppure la pena di soffermarsi.
I mondiali si svolgevano ogni quattro anni e creavano un’attesa messianica. Ora si parla di portarli a due. Le squadre ammesse erano molte di meno e questo alzava il livello tecnico. I due momenti più noti della carriera di Tarcisio Burgnich sono anomalie per lui. La location di entrambi è il campionato del mondo Messico ’70. Nella semifinale, l’eterna Italia-Germania 4-3, il terzino destro azzurro (allora non usava la definizione “esterno difensivo”) segnò uno dei suoi rari gol. Apparve incredibile vederlo via satellite nell’area avversaria, perché all’epoca il ruolo imponeva di non uscire dalla propria: l’importante era marcare l’avversario e certi “buchi” che vedi oggi in serie A erano impensabili . L’unica eccezione era quella di Giacinto Facchetti, compagno nell’Inter e in Nazionale. Durante la finale contro il Brasile è stata tramandata ai posteri l’immagine di Burgnich che si arrampica in cielo per cercare, invano, di contrastare Pelè. Lui che era uno dei più forti francobollatori del mondo quella volta fece cilecca. Solo la classe cristallina di “O Rey” poteva scalfire la “roccia”.
Sono passati cinquant’anni e si ricorda ancora tutto. Chissà se tra mezzo secolo ci sarà memoria delle prodezze dei calciatori di oggi? Perché se in quel calcio c’erano meno, molti meno, soldi, la passione era superiore. Soprattutto da parte delle giovani generazioni che oggi sembrano poco interessate all’idea di dare quattro calci a un pallone e ancor meno a trascorrere un’ora e mezza del loro tempo nel guardare una partita. Secondo uno studio si accontenterebbero degli highlights, le brevi sintesi. Finirà che la Fifa abbrevierà i tempi di gioco da 45 minuti ad altrettanti secondi. Questa disaffezione dovrebbe preoccupare gli addetti ai lavori, troppo impegnati però a fare business e a ignorare i rischi di un fallimento che, per molte squadre se fossero aziende “normali” sarebbe già nei fatti. Non c’è bisogno di evocare la tragedia criminale della funivia del Mottarone per comprendere che, con troppa avidità, si finisce male. Magari Burgnich, salutando a centrocampo, anzi, pardon, in difesa, ha voluto dare un segnale di distacco da questo calcio. Che corre sempre di più in campo e fuori. Però così rischia di non farcela. A proposito dell’eccesso di agonismo, un grande allenatore come Ottavio Bianchi per spiegare come non si possa praticare ilpressing sempre e in ogni zona del campo, portava l’esempio di una partita tra l’ex Ddr e l’Olanda. I tedeschi dopo aver martellato ogni portatore di palla avversario e aver concluso il primo tempo in vantaggio di due gol, furono travolti nella ripresa dagli avversari. Ecco, il rischio che anche per il calcio di oggi e quindi per il pallone in generale, si stia giocando quel secondo tempo.
Di certo chi ha meno di cinquant’anni non avrà compreso molto di questo pezzo. Non sa cosa si è perso. E non per l’articolo, naturalmente.
© RIPRODUZIONE RISERVATA