Il caso Khelif: a nessuno importa del “mostro”

“The Elephant Man” è un commovente film di David Lynch, tratto da due libri biografici e quindi ispirato a una storia vera, quella di un uomo devastato da una rara patologia che ne deformava larghe parti del corpo, soprattutto la testa.

E così, nella Londra di fine Ottocento, l’Uomo Elefante è esibito al pubblico ludibrio negli spettacoli di strada, dove un giorno viene notato da un medico compassionevole che cerca di curarlo e salvarlo. E il suo caso diventa così famoso da arrivare addirittura alla corte della regina Vittoria. C’è la fila di aristocratici e grandi borghesi per conoscerlo e frequentarlo. Solo che, paradossalmente, non è cambiato nulla: al di là delle buone intenzioni - amarissima pedagogia - anche lì l’Uomo Elefante viene trattato come un fenomeno da baraccone.

Il tema del Mostro è strettamente connesso alla storia della nostra civiltà ed è supportato da una vastissima letteratura scientifica, ma soprattutto letteraria e antropologica, da Quasimodo a Frankenstein, dal lupo mannaro al vampiro, solo per fare qualche esempio. È quasi una necessità che quella “cosa” esista, per averne paura e quindi per dileggiarla, perseguitarla e trasformarla nel capro espiatorio di ogni male.

I recenti eventi olimpici ci hanno riportato proprio lì. L’incontro di boxe tra la pugile italiana Angela Carini e quella algerina Imane Khelif - che è una donna, ma con un alto livello di ormoni - è diventato un campo di battaglia quando la nostra atleta si è ritirata dopo appena 46 secondi. Tutti, ma proprio tutti, nessuno escluso, dai nostri sedicenti statisti ai più formidabili opinionisti, ai più autorevoli giornalisti si sono sentiti in diritto di pronunciare parole fondamentali sul caso Khelif e, a seguire sui social, la fogna assoluta della repubblica delle banane, legioni di imbecilli di destra, plotoni di mentecatti di sinistra, oltre a noi merde dell’informazione - tutti premi Nobel, tutti genetisti, tutti Boncinelli, tutti Monzon, tutti Rino Tommasi – con l’incompetenza, il cialtronismo e il servilismo che ci contraddistingue abbiamo sentito l’urgenza di giudicare, assolvere o condannare. Tutti hanno parlato. Tutti hanno commentato. Tutti hanno trombonato. Tutti tranne uno. C’è un solo essere umano del quale non interessa a nessuno cosa pensi. Imane Khelif.

Perché la cosa più schifosa di questa schifosissima vicenda, nella quale la nostra politica e la nostra informazione hanno toccato veramente il fondo, è che tutti smaniano di usare la pugile marocchina per alimentare ridicole guerre ideologiche sul genere e a nessuno importa una beata mazza di lei in quanto persona. Perché quella (o quello?) non è una persona. È una donna-uomo. Un mostro. L’Uomo Elefante, appunto.

Ma è giusto così. Siamo fatti così. E quindi, se ci fa stare bene, anzi, se la cosa ci diverte, dovremmo andare fino in fondo. Una volta finite le Olimpiadi, potremmo geolocalizzare Khelif in una prospettiva di puro avanspettacolo. Ad esempio, potremmo metterla alla catena come l’orso delle fiere - tre palle, un soldo - oppure farla assoldare dal circo Togni e lì, in piena atmosfera felliniana, potremmo farla pedalare sul triciclo al posto del macaco con noi che le (o gli?) tiriamo le noccioline. Questo sembra divertente. Oppure vestirla da pagliaccio che prende gli schiaffi da Vannacci. O anche schierarla nella squadra titolare dei “Freaks” (formidabile film di Tod Browning del 1932) assieme alla Donna Cannone, la Donna Barbuta, l’Uomo Salsiccia, il Nano Sodomita, il Microcefalo, le Sorelle Siamesi, lo Scheletro Umano, il Forzuto eccetera. E anche questo, diciamoci la verità, sarebbe molto divertente.

Ma pure molto di destra. E allora, al contrario, si potrebbe invitarla a “Piazza pulita” o a “Di martedì” e farle recitare la favoletta della segregazione e del paternalismo e del patriarcalismo e farla diventare il simbolo dell’orgoglio della diversità e magari farle scrivere un libro sulla democrazia e sul fluidismo e sul femminismo e, naturalmente, sull’antifascismo - tipo quelli della Murgia, per intenderci - e poi farla partecipare allo Strega e farglielo vincere, anche se non sa scrivere (perché, allo Strega bisogna saper scrivere?). Ma anche come reginetta del carro del Gay Pride sarebbe divertente, in effetti.

Troppo di sinistra, però. Meglio tornare a destra, perché quella è uomo, ma è anche negra. Che poi non è vero che è negra, ma è negra lo stesso. E magari pure lesbica, visto che è mascolina. E anche musulmana (quindi potenziale terrorista), e allora come donna deve mettere il burqa e come uomo deve menare la donna che non si mette il burqa e peccato che non ci sia più il “Costanzo Show”, che in quanto a raccolta di casi umani non aveva rivali. E comunque la potremmo spedire all’ “Isola dei famosi” o, meglio ancora, a “Temptation Island”, solo che lì sono tutte coppie e allora ci va come donna - tra l’altro una grandissima cessa (risate!!) - o come uomo? Nel caso potrebbe partecipare assieme alla piagnucolante Carini, che magari non se ne è accorta, ma è un fenomeno da baraccone pure lei.

Però questo non sarebbe spassoso per la sinistra. Che sicuramente per lei ha invece già pensato a un ruolo nel sequel de “La giornata d’uno scrutatore” di Calvino, perché assieme agli altri deformi, minorati e storpi del Cottolengo possa ispirare profonde riflessioni agli intellettuali da salotto in crisi sulla loro funzione in una società così volgare ed eternamente fascista come la nostra. E sai le risate…

Ne possiamo fare di cose divertenti con Imane Khelif. Ne avremmo da spassarcela, prima che ci venga a noia e che la si butti nella spazzatura. Ce ne sarebbero di cose da fare per quelle come lei, se avessimo cultura, intelligenza e sapienza. Ma tutto questo non c’è. C’è solo la suburra, la chiavica, la porcilaia. E quindi, forse, l’unica cosa che resta da fare ai mostri come lei è racchiusa nella scena finale di “The Elephant Man”. Una scelta terribile, ma almeno quella nobile e coraggiosa.

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