«Il Ministero della Verità era un’enorme struttura piramidale di cemento bianco e abbagliante che s’innalzava, terrazza dopo terrazza, fino all’altezza di trecento metri. Dove si trovava Winston era possibile leggere, ben stampate sulla bianca facciata in eleganti caratteri, i tre slogan del Partito: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Si diceva che il Ministero della Verità contenesse tremila stanze al di sopra del livello stradale e altrettante ramificazioni al di sotto».
La distopia raccontata da George Orwell in “1984” è una delle più celebri metafore della letteratura del Novecento, formidabile analisi dell’essenza dei totalitarismi, del controllo scientifico, pianificato, ossessivo, persecutorio che il Potere vuole esercitare sull’umanità, che è poi l’eredità più terribile che ci ha lasciato il secolo breve. Ora, è vero che le atmosfere claustrofobiche e soffocanti di Orwell male si conciliano con quelle ridicole dei tempi nostri - anche se il grottesco è una chiave di lettura molto più universale del tragico - ma l’essenza del problema è lo stesso. Sono giorni che i meglio giornali del bigoncio, i meglio opinionisti “de sinistra” del Belpaese, i meglio intellettuali e le meglio intellettualesse dei salotti e delle terrazze si disperano e si struggono e si macerano, ma al contempo avvampano e si indignano e si scandalizzano, per la decisione di Mark Zuckerberg di eliminare il “fact checking” - cioè il controllo sulla veridicità delle notizie - da Facebook e Instagram. Lo stesso identico procedimento applicato da Elon Musk a X. D’ora in avanti nessuno cancellerà i contenuti che verranno postati su quelle piattaforme. E questa notizia è un’ottima notizia. E il fatto che gli intellettuali e le intellettualesse di cui sopra - che cianciano senza avere la minima idea di cosa sia una democrazia liberale, per quanto Musk e compagnia non siano liberali affatto - se ne dispiacciano è la prova del nove che si tratti davvero di un’ottima notizia.
Il Ministero della Verità deve restare confinato in un romanzo, perché nel momento in cui esce da lì e diventa realtà, le conseguenze sono devastanti. E chi sarebbe, di grazia, l’autorità preposta a decidere cosa si pubblica e cosa no? Cosa è degno e cosa no? Cosa è “corretto” e cosa no? Cosa è “vero” e cosa no? Chi sarebbe questo genio? Chi, il Gran Giurì degli Intelligentoni delle terre emerse? Il Sinedrio del Discorso della montagna? Il Club degli Scienziati? I Probiviri dell’Ordine dei giornalisti à la page? La Confraternita dei Farisei Tartufi Perbenisti? E’ una roba orwelliana. E’ una roba gravissima. E’, soprattutto, una roba ridicola. Visto che basta postare un capitolo di “Bagatelle per un massacro” di Céline o dei “Discorsi a tavola” di Lutero o qualche racconto di Bukowski o di Henry Miller o una canzone dei Sex Pistols o “L’origine del mondo” di Courbet o mille altre opere d’arte per finire oscurati dagli ottusi sgherri del regime omeopatico che censura i contenuti difformi dal mainstream collettivo. Facebook è riuscito a sbianchettare pure un’intervista di “Avvenire” al patriarca di Gerusalemme intitolata “Costruire la pace partendo dai popoli”. Si parlava di Gaza. E’ stato valutato un “contenuto violento”. Pensa che imbecilli, i nostri fact checker.
Quindi, al netto della tutela dei minori, che è un tema di straordinaria complessità e difficilissima soluzione, bisogna avere il coraggio di affermare che ogni controllo di questo genere è sbagliato. Gli unici vincoli accettabili sono la tracciabilità di chi pubblica, il codice penale, il codice civile, il codice deontologico. Punto. E bisogna piantarla di considerare i social come l’unica sentina dell’umanità. Certo che lo sono, certo che hanno una potenza tecnologica diffusiva inaudita, ma la natura menzognera non è affatto una loro esclusiva. La storia dell’informazione è dal suo dilucolo, dai tempi di Gutenberg, una storia di bugie e falsità. I media tradizionali, i giornali, le radio, le televisioni sono da sempre infarciti di imprecisioni, allusioni, diffamazioni, astuzie demagogiche e tendenziose, luride marchette, servilismi ignobili e ignobili mascalzonate, calci dell’asino ai perdenti e leccate di piedi ai potenti. E’ la storia dei media. E’ la storia degli uomini. E’ la loro natura. E così come la conoscenza della storia si conquista solo confrontando più e più fonti - la storia la scrivono sempre i vincitori - allo stesso modo l’unico soggetto deputato a tentare di ricostruire faticosamente la realtà non è certo uno sguattero del padrone o un invasato che si ritiene il depositario della Verità (che esiste, però è inconoscibile) o chi volete voi, ma il singolo lettore, il singolo cittadino.
Ed è qui che casca l’asino dei nostri mirabolanti editori globali e dei nostri mirabolanti statisti multimediali. L’informazione seria, approfondita e corretta prevede che esista un pubblico di persone colte, riflessive e preparate, uomini e donne che studiano, che leggono, che confrontano le fonti, che non si fanno prendere per il naso dal primo Masaniello o dal primo imbonitore di piazza che passa, che capiscono al volo sui social e sui media tradizionali dov’è la notizia, dove la propaganda stracciona e dove la fuffa pura e semplice. E per far sì che una società del genere esista, servono famiglie solide, scuole e università meritocratiche, insegnanti di vaglia.
Tutto quello che oggi non c’è perché a questi qui, ai mirabolanti editori globali e ai sedicenti statisti multimediali di cui sopra, non interessa nulla di questo, interessa solo governare una plebe marmagliante di analfabeti funzionali (in Italia è il 35% della popolazione!) che non sono in grado di comprendere un testo complesso e sono quindi perfetti per ingurgitare qualsiasi balla clamorosa faccia loro comodo.
Questo è il programma. Sul quale, non preoccupatevi, sono tutti d’accordo. Perché quando c’è da lisciare il pelo al popolo bue prima per fregarlo meglio dopo, questi qui - destra, centro e sinistra - sono tutti uguali. Diteglielo al fact checker.
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