Il mistero e la nostra rimozione della morte

Krzysztof Kieslowski, il grande regista polacco che con il “Decalogo” ha lanciato e vinto una delle sfide più colte, ambiziose e commoventi della storia del cinema, era ateo. Ma diceva che nonostante questo, anzi, forse proprio per questo, si interrogava quotidianamente su Dio.

L’ateo è una figura straordinariamente interessante. E coraggiosa. Decide di non dormire, di non svicolare, di non avere paura e di guardare cosa c’è dietro l’angolo, di fissare dritto negli occhi la Medusa e di sprofondare nei suoi abissi. E’ per questo che ragiona su Dio, proprio lui, proprio nel momento in cui ne nega l’esistenza, la sapienza e l’autorità. E’ uno che ha fatto propria nel senso più compiuto la celeberrima scommessa di Pascal: “Dio esiste o Dio non esiste. Per quale di queste due ipotesi volete scommettere? / Per nessuna delle due. La risposta giusta è non scommettere affatto / Vi sbagliate. Puntare è necessario, non è affatto facoltativo. Anche voi siete incastrato”.

In questo senso, è identico al credente. Opposto, certo. Ma identico. Come se fosse la sua immagine riflessa in uno specchio. Anche il credente, quello vero, scommette. Quali argomenti razionali ha a suo supporto? Nessuno, ovviamente. E’ una sfida, un paradosso, uno scandalo del tutto irrazionale e irragionevole. Perché non sa nulla né mai lo saprà, se non una volta arrivato alla resa dei conti. Proprio per questo motivo i due soggetti di cui sopra non sono particolarmente amati dal senso comune né affascinanti per l’immaginario collettivo. Il primo, l’ateo, è guardato con sospetto, come un tipo strambo, un mattocchio, un invasato, un eccentrico, uno straniero solitario e infettante, un senza Dio, appunto. Il secondo, invece, che è pure peggio, fa sorridere per la sua dimensione puritana, vintage, sorpassata, una roba un po’ da anziani, da perpetue, da vecchine, da baciapile, da gente analogica in bianco e nero a cui non bada più nessuno.

È una riflessione che è sgorgata molto spontanea dopo il recente via libera del Papa a Medjugorje, con la concessione del nulla osta al culto mariano nella celebre e controversa località della Bosnia Erzegovina, nella quale da quarant’anni si radunano milioni di fedeli. Non esiste alcuna pronuncia sulla soprannaturalità delle apparizioni, c’è una ferma presa di distanza dai presunti veggenti, ma una valutazione positiva dei pellegrinaggi che si rivolgono a quella sede non certo per veder accadere un miracolo o farsi abbindolare dai truffatori, ma per incontrare spiritualmente Maria e Cristo. Naturalmente, questa non è la sede, anche perché mancano le competenze, per analizzare i risvolti teologici della presa di posizione vaticana. Quello che interessa e avvilisce (ma non stupisce) è la superficialità e soprattutto l’arroganza con la quale noi, noi generone, noi borghesucci pantofolai conformisti e perbenisti, noi soldatini catodici e digitali del mainstream consumista e luogocomunista planetario - tutti raggomitolati attorno al più confortevole boh, non so, vai a sapere, è un bel casino e, sostanzialmente, chissenefrega - valutiamo questi fenomeni. L’ateo è un pazzo. Il credente un bigotto. Punto.

Le Chiese sono vuote, certo, sia quelle dei credenti sia quelle dei non credenti. Ma il tema resta. Il tema che, a un certo punto, ogni nostra cognizione o certezza si rivela del tutto inadeguata per capire l’esistenza e anche se tu passi i decenni a cercare di rimuoverlo – il tema della morte è la più grande rimozione prodotta dalla nostra cultura negli ultimi cinquant’anni – a un certo punto ti si presenta alla porta di casa. Allora sì che ti tocca, perché, alla fine, gli esseri umani sono tutti uguali. Si interessano alle cose solo quando queste li colpiscono in prima persona.

E allora, che c’è da ridere di quelli che vanno a Medjugorje? O a Fatima o semplicemente in chiesa? Che c’è da sghignazzare, da sbellicarsi? Tutti cretini? Tutti codini? Tutti maniaci depressivi? Tutti bietoloni che si fanno scozzonare da un tour operator spolverato d’incenso o dal parroco del paese? E se avessero ragione loro? E se fosse quella la strada giusta? E se, invece, quello che aveva capito tutto era quello là delle poesie dei tempi del liceo, perché Leopardi è andato fino in fondo, fino alla fine, senza sconti, fino alle voragini del nulla ed è lì che ancora urla e grida e ci strattona? Chi può saperlo? Nessuno. Quello che è invidiabile è che loro, gli atei e i credenti, hanno scelto, mentre noi vigliacchi ci nascondiamo sotto le coperte sperando che quel pensiero che ogni tanto affiora – e quando affiora, ragazzi, sono notti d’inferno - passi al più presto.

È un grande mistero. Che qualcuno risolve nell’eucaristia, qualcuno in altro modo. L’ateo Kieslowski ha fatto così. Il primo episodio del “Decalogo” (dieci film brevi dedicati a ciascun comandamento), intitolato “Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio all’infuori di me”, racconta di un professore, ateo e anticlericale, che sostituisce il creatore con la matematica e i computer, creazioni perfette dell’Uomo, e pensa che quelle governino la vita. È in quel momento che Dio interviene, con una ferocia, una violenza veterotestamentaria - altro che Gesù bambini biondi e occhioazzurrini ed esemplari gesti carichi di bontà - e una furente spietatezza che lascia senza fiato. Cinquanta minuti devastanti.

Bene, prima che la tragedia si compia, il figlio del protagonista, bambino intelligentissimo, sensibile, permeato della cultura scientista e materialista del padre, chiede all’amata zia, fervente cattolica e devota di Papa Wojtyla: “Chi è Dio, tu lo sai?”. La donna lo stringe a sé in un abbraccio profondissimo e silenzioso, un abbraccio nel quale si riversano tutto il dolore degli uomini e i loro affanni, le loro infamie, la loro sconsolata solitudine, il loro disperato bisogno di amare e di essere amati. Un abbraccio assoluto. Un abbraccio mistico. Un abbraccio profetico. Poi, avvicina la bocca all’orecchio del bimbo e gli dice: “Ecco, questo è Dio”.

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