Il moralismo è la prosecuzione dell’infantilismo con altri mezzi. E nessuno è maestro di moralismo e di infantilismo come la povera politichetta dell’ancor più povera Italietta ferragostana.
La rinnovata popolarità di Enrico Berlinguer, mai estinta a sinistra, ovviamente, ma sempre crescente anche a destra e testimoniata dall’attenzione alla recente mostra dedicata al leader del Pci (visitata anche dalla Meloni) e al film biografico che inaugurerà in ottobre la Festa del cinema di Roma (e pure qui dovrebbe essere presente il premier) potrebbe far pensare al radicamento di una figura storica talmente fondante, nobile e credibile da diventare universalmente condivisa. E che questo accada nel paese dell’eterno fascismo, dell’eterno antifascismo e dell’eterna guerra civile - in chiave ridicola e grottesca, s’intende – sarebbe un risultato oggettivamente clamoroso. Concesso a ben pochi oltre a lui, a qualche padre costituente, ma nell’epoca moderna forse solo a Pertini e fermiamoci qui. E di certo nella destra post missina non può non avere il suo peso quel filo sotterraneo, ma ininterrotto di rapporti che ha legato Berlinguer ad Almirante durante i tanti colloqui segreti che hanno intrecciato nei momenti più bui del terrorismo neofascista e brigatista e magnificamente raccontati da un cronista di razza come Antonio Padellaro in un libro importante e intelligente.
Sarebbe bello, certo. Ma non è così. E il solo fatto che il segretario comunista sia finito nel Pantheon di soggetti difformi - giusto per dire il livello - quali Salvini, secondo cui la Lega ha ereditato i valori del Pci di Berlinguer, Di Maio, che considera i grillini i suoi veri discendenti, e la Schlein, che ne esalta la scelta dell’“alternativa democratica”, dovrebbe mettere in allarme gli analisti più avveduti. Perché la santificazione postuma del segretario comunista viene effettuata non seguendo una fredda ed approfondita analisi tutta politica, ma scegliendo dalla vasta eredità berlingueriana solo quello che serve loro, e in particolare solo la fase fin troppo nota avviata dalla celebre intervista concessa a Scalfari nel 1981 e nella quale si denunciava il tema della “questione morale” e quello della degenerazione dei partiti in mere macchine di potere e di clientele. E cioè, checché ne dicano le anime belle e i moralisti d’accatto che prolificano a mandrie a destra e a manca, l’aspetto di gran lunga più debole, più antipolitico, più demagogico di tutta l’avventura del grande politico sardo. Quello che ne ha segnato la fine e per il quale, se fossimo intellettualmente onesti, non andrebbe ricordato affatto.
E’ vero che può apparire scioccante strappare il santino, l’immaginetta del Berlinguer puro e intonso e immacolato, bandiera sventolante della retorica perbenista che ci avvelena da quarant’anni, ma è proprio così che è andata. Nel momento in cui lui e tutto il mondo che rappresentava - attenzione, un mondo di nobilissimo profilo, di profondissimo spessore culturale, che al confronto i suoi epigoni del Pd e gli altri figuri del centrodestra fanno piangere, anzi, fanno ridere – non riusciva più a capire l’Italia, la nuova Italia post ideologica, post anni di piombo, e quindi non poteva capire gli anni Ottanta, il boom, l’individualismo, lo scardinamento delle vecchie strutture sociali operaie, operaistiche e sindacali, insomma, non poteva capire la modernità, non avendo strumenti culturali nuovi per governarla, Berlinguer non ha trovato altra soluzione che la scappatoia della superiorità antropologica, della differenza etica, della criminalizzazione di chi non fosse come loro, soprattutto a sinistra.
“Noi” siamo onesti, “gli altri” sono ladri. Questa la sintesi con cui si è tragicamente tentato di ricacciare all’angolo il nuovo mondo - bello o brutto che fosse - e che aveva come sua immagine emblematica, metaforica, lombrosiana Bettino Craxi. Che invece il nuovo mondo, quello nel quale, per dirla brutalmente, i giovani non pensavano più alla rivoluzione proletaria ma a comprarsi il motorino, lo aveva capito benissimo e aveva capito che Berlinguer con il suo ascetismo monastico e il suo moralismo era il passato - “Berlinguer non ha nemmeno la televisione a colori!” - e lui invece il futuro. E infatti da lì in poi il Pci continuò a perdere inesorabilmente voti, elezione dopo elezione, a parte quelle tenutesi appena dopo la sua morte tragica, straziante ed iconica durante un comizio a Padova, e a rifugiarsi nel palazzo di avorio dei Migliori, dei Prescelti, dei Giusti, degli Onesti. E uscendo così di fatto dal campo di Agramante della politica – la politica sangue e merda - e delegando la propria funzione alla magistratura – errore imperdonabile - con tutti i disastri cui abbiamo assistito dagli anni Novanta in poi. E che ci fossero, e ci sono e ci saranno, politici che rubano a mani basse e che si mangiano pure le gambe del tavolo non c’entra nulla. Si indagano, si processano, si condannano. Punto. Ma l’onestà non è politica. E’ prepolitica. Altrimenti diventa ideologia, regime, pleonasmo.
Ecco cosa piace ai nostri sedicenti statisti di oggi di Berlinguer. Questo. Il poter intestarsi la palma, l’alloro dell’onesto, del diverso, dall’anti casta, del difensore del popolo, di quello che ama la gente e tutto il resto del pattume qualunquista, populista, gentista, tartufista con il quale i sedicenti statisti di cui sopra inondano i loro social e i loro ululati alla luna, che sul moralismo dell’antipolitica tanto al chilo Meloni, Schlein, Salvini e Conte e praticamente tutti gli altri, salvo alcune coraggiose eccezioni, hanno costruito i loro irresistibili (?) successi.
Alla fine, il dipietrismo, il leghismo, il sinistrismo, il grillismo e il melonismo (per non parlare del giornalismo, per carità), sono tutte costole di “quel” berlinguerismo. E che a un uomo di tale statura e di tale valore si debba addebitare la genesi del trionfo della demagogia rappresenta purtroppo la sua sconfitta più dura.
© RIPRODUZIONE RISERVATA