I numeri, sembrerebbe, non sono di alcun servizio a chi cerca di descrivere il dolore. Infinite volte li abbiamo incontrati nei libri di storia, buttati lì a misurare la ferocia di una battaglia o la letalità di una guerra; altrettanto spesso li abbiamo letti nelle cronache, chiamati a circoscrivere i danni umani di una catastrofe o di un’azione terroristica. Non ci hanno mai lasciato indifferenti, ma neppure, dobbiamo ammetterlo, ci hanno curvato la schiena con il giusto peso emotivo di un evento doloroso né sgomentato aprendoci gli occhi davanti all’ampiezza insanabile di una tragedia. Sono numeri: si prestano a tante cose, non a evocare ciò che solo l’esperienza diretta vale a renderci partecipi, ovvero coinvolti in un destino che finalmente sentiamo nostro quanto quello altrui.
Eppure, esistono numeri capaci di affrancarsi dalla statistica e assumere connotati più vicini alle palpitazioni dell’umanità, al suo naturale smarrimento, e si prestano al risveglio di quelle che Proust chiamava “intermittenze del cuore”.
L’esistenza del nostro corpo, sosteneva lo scrittore, ci fa supporre che “tutti i nostri beni interiori, le nostre gioie trascorse, tutti i nostri dolori siano perennemente in nostro possesso” come in “un vaso in cui fosse racchiusa tutta la nostra spiritualità”. Eppure, Proust nota che se pure queste cose rimangono dentro di noi, “rimangono per la maggior parte del tempo in una regione sconosciuta, dove non ci sono di alcun giovamento, e dove anche i più comuni ricordi vengono ricacciati indietro da altri di un diversa natura, che escludono ogni simultaneità con essi all’interno della coscienza”. Fino a quando non interviene, appunto, una di queste “intermittenze” in virtù delle quali, quasi inaspettatamente e comunque in frangenti che nostro malgrado riescono a coglierci di sorpresa, la trama della stoffa umana è rivelata nei suoi nodi e nelle sue volute, nelle dorature, nei ricami e, naturalmente, negli strappi. A Proust un semplice gesto quotidiano consegna di colpo la potente e dolorosa consapevolezza della morte dell’amatissima nonna, a noi il numero mille porta oggi, scarnificata, l’evidenza della tragedia che stiamo vivendo.
Mille morti in provincia di Como dall’inizio dell’epidemia di coronavirus: un numero che lascia la statistica per misurare in termini inequivocabili l’ampiezza della ferita inflitta alla nostra comunità. Non perché 999 fossero pochi: la ragione sta in quelle “intermittenze” di cui parlava Proust. Esse allineano il cuore al ritmo di una sofferenza che, vissuta fino a oggi in mille modi diversi, con commozione, paura, qualche volta con rabbia e in altre occasioni con distacco e perfino con scetticismo, ci coglie ora in tutta la sua inesprimibile eppure evidente verità.
Sarebbe ingiusto dire che fino a oggi non abbiamo capito o, peggio, che abbiamo sottovalutato quel che avevamo sotto gli occhi, e ancora più iniquo sarebbe accusarci di indifferenza: nelle storie raccontate da chi ha perduto familiari e amici, nelle fatiche di medici e infermieri, abbiamo da tempo intuito che il loro dolore e la loro stanchezza ben ci riguardano. Ma il numero consegnatoci oggi dalla cronaca va oltre: parla al cuore, entra nell’anima, ci ricorda che apparteniamo a un insieme umano irreparabilmente intaccato dalla malattia. Possiamo piangere mille morti, oggi, come ne piangiamo uno solo. Come piangiamo il nonno, il genitore, l’amico, il collega. In tanti ritroviamo uno, la cui assenza sbilancia il nostro vivere, la cui mancanza ci toglie le forze e ci spinge alle lacrime.
Mille è anche il numero che, così calato, invita a sospendere quel parlare, quel raccontarci, quel confrontarci e non di rado sfidarci che ha accompagnato gli stancanti mesi di vita con il virus. Un crinale al quale arriviamo sentendo necessità di preghiera o comunque di raccoglimento. Lo spazio per realizzare, con un sospiro, come il nostro errare quotidiano sia tanto febbrile quanto futile.
Si ritrova bene, questo sentimento, in una poesia che in verità parla di amore e non di morte, e lo fa con una semplicità toccante. La scrisse Heinrich Heine nel 1827 dedicandola alla madre.
“Son uso camminare a testa alta” esordisce il poeta, “e d’indole inflessibile e testardo.” Lasciata la madre “in preda alla follia” egli si aggira per il mondo in cerca di amore: “In ogni vicolo io ho cercato amore / le mani ho teso davanti a ogni porta”. Fino alla realizzazione sorprendente: l’amore che cercava non poteva essere più vicino. Heine conclude rivolgendo alla madre versi che, oggi, noi potremmo riferire a chi non c’è più, a chi è caduto vittima della malattia, perché la nostra concordanza con l’umanità non venga a mancare, il ricordo sia sempre vivo e ci parli di affetto e di speranza: “E tu eri lì, e mi sei venuta incontro / Ed ecco che splendeva nei tuoi occhi / L’amore dolce che cercavo tanto”.
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