Con il passare degli anni due eventi così diversi, ma così connessi con l’immaginario collettivo planetario come il Premio Nobel per la letteratura e il Pallone d’Oro sono diventati delle sostanziali pagliacciate.
Sarà lo spirito dei tempi. Anche se, a dire la verità, il Nobel è dalla sua fondazione che ci regala sfondoni talmente clamorosi da rasentare il puro grottesco. Lungo la sua onorata e prestigiosa storia, iniziata nell’anno del Signore 1901, i cervelloni dell’Accademia svedese hanno infatti architettato di non premiare scrittoronzoli quali Tolstoj - tutto vero, Tolstoj! - e poi, non contenti, non hanno premiato Cechov e poi non hanno premiato Proust e poi non hanno premiato Joyce e neppure Céline e manco Nabokov e Virginia Woolf e Orwell e Borges, perché anche Borges non è stato ritenuto all’altezza. Una fenomenologia che oltretutto, negli ultimi decenni, e soprattutto negli ultimi anni, ha preso una deriva sempre più geopolitica, sempre più moralistica, sempre più conformista nella quale il valore oggettivo della letteratura è stato scalzato da quello della correttezza politica, del sedicente impegno sociale, della retorica sul femminismo e la parità di genere, dell’esibizione di un tartufismo collettivo che rimesta la stessa minestra anti occidentale, che poi manco si capisce cosa voglia dire.
Ma passando a cose più serie della letteratura - è cioè il calcio - la situazione è anche peggiore. Il Pallone d’oro, istituito nel 1956 dalla gloriosa rivista sportiva d’oltralpe “France football” e assegnato ogni anno al miglior calciatore del mondo (fino al 1995 era riservato ai soli giocatori europei: è per questo che Pelé e Maradona non l’hanno mai preso), per diversi decenni è stato un riconoscimento calcistico serio o quasi serio, visto che fortunatamente non c’erano di mezzo gli spagnoli e gli italiani. Oggi purtroppo si è ridotto a una farsa circense che trova il suo apogeo nella serata di gala, che scimmiotta quella degli Oscar - altro show burino e provinciale straboccante di luoghi comuni - con tanto di presentatori inamidati, ragazzotti addobbati con dei gessati da gangster (e in effetti l’ambiente è un po’ quello), bonazze generalmente poco vestite che combattono il patriarcato facendo vedere il sedere in diretta tivù, intermezzi musicali da abbiocco, trionfi di banalità sulla società fluida, la transizione ecologica e, naturalmente, la pace nel mondo.
Ma la cosa più grave non è questa, che al cattivo gusto che impera nella società ormai abbiamo fatto il callo. La cosa più grave è che nell’ultimo quindicennio dall’assegnazione del Pallone d’Oro è di fatto sparito il criterio del merito. Da quando il Grande Fratello calcistico-affaristico-televisivo ha deciso che andava costruita a tavolino la rivalità tra due calciatori. E solo quelli. Solo e soltanto quelli. Tutti gli altri sono stati tagliati fuori dalla possibilità di vincere. A prescindere. A prescindere dai risultati, dalle prestazioni, dalle conquiste di scudetti, Champions e Mondiali. Perché il Pallone “dovevano” vincerlo un anno Messi e l’altro anno Ronaldo - fuoriclasse assoluti, pezzi unici della storia del calcio, niente da dire - solo e soltanto loro. O Messi o Ronaldo. Punto. Una dittatura degli sponsor che è costata la vittoria a giocatori formidabili quali Xavi, Iniesta, Neuer, Ribery o Lewandowski - giusto per fare qualche nome - che in una specifica stagione avevano fatto meglio di Messi e Ronaldo e avevano pure vinto di più, ma che non erano abbastanza “vendibili” sul mercato globale, meno personaggi, meno “aziende” del fatturato e del consenso del popolo bue, che notoriamente non capisce una mazza manco di pallone.
E uno pensava che in questo modo si fosse toccato il fondo. E invece no. Perché l’edizione di quest’anno, andata in scena pochi giorni fa – e che ha premiato un campione come Rodri, ma il suo nome l’ha spuntata solo come ripicca della banda Ceferin ai danni della banda Perez dopo il clamoroso scontro sul progetto Superlega – ha fatto crollare il muro del ridicolo, con il boicottaggio deciso dal presidente del Real quando ha saputo che il Pallone d’oro non sarebbe stato assegnato al suo bomber Vinicius, arrivato “solo” secondo. Un affronto intollerabile. E così, sono rimasti tutti a casa, compreso Carlo Ancelotti e la sua bonomia, che avrebbe dovuto essere insignito come miglior allenatore 2024.
Ora, è noto che da quando il calcio è calcio le squadre arroganti, odiose e impunite sono sostanzialmente tre: il Brasile a livello mondiale, il Real Madrid, appunto, a livello europeo e poi ce n’è una in Italia che tutti sanno qual è, ma che non si può dire. Eppure c’è da riconoscere che l’uscita dei Blancos è stata epocale: questi pensano che il calcio sia roba loro, di essere i padroni della baracca e che a loro in quanto meglio fighi del bigoncio vadano assegnati a priori i trofei delle giurie, le ovazioni dei tifosi e le leccate di piedi dei giornalisti sportivi (curiosa categoria che meriterebbe un discorso a parte...). E quindi, come dicevano sempre Nedved o Inzaghi quando si buttavano in area di rigore, a forza di ripetere tutti i giorni la stessa cosa alla fine quella cosa diventa vera e infatti il tam tam social planetario delle settimane scorse aveva già deciso che Vinicius fosse il più forte di tutti. Cosa peraltro assai discutibile.
Ma ripetiamolo, al di là delle analisi pallonare di noi italiani medi, l’aspetto devastante della faccenda è come pure nel calcio sia decaduto il postulato del talento, che almeno lì, almeno nello sport, almeno in quella amatissima riserva indiana, appariva intoccabile e intangibile, in modo che pure i figli della serva potevano farcela, alla faccia dei figli di papà. E che lì, almeno lì, fosse tutto diverso rispetto allo schifo che dobbiamo ingurgitare ogni giorno nella politica, negli uffici e nelle redazioni dei giornali, dove invece vince sempre, o quasi, il più furbo, il più servo, il più ruffiano. Che tristezza. Adesso anche il bomber lo manda Picone.
@DiegoMinonzio
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