Il politico da evitare? Quello uguale a noi

Il bar. L’osteria. La vineria. La fiaschetteria. La caserma. La battutaccia. L’ammicco. La gomitata in pancia. La torta in faccia. Il gatto morto sul palco. Il lazzo. Il frizzo. La lingua di Menelicche. Lo schiaffo del soldato. La ciabatta. La canotta. La mutanda. E tutto via social, naturalmente, in diretta direttissima che più diretta non si può. E poi tutti giù a ridere e a sganasciarsi e a sbudellarsi e a smascellarsi e a rotolarsi.

È da tempo immemore, ormai, che il grottesco è diventato l’unica chiave di lettura della politica italiana e, più in particolare, del potere all’italiana. Forse perché non ci sono più le ideologie, forse perché i tempi sono cambiati, forse perché il livello medio del nostro personale è talmente basso, ma talmente basso che essendo privo di cultura, struttura, storia e visione, si arrangia come può. Buttandola in caciara, appunto.

Ne è riprova eclatante il recente scambio di gentilezze tra il presidente del consiglio e il presidente della Campania, due attori consumati entrambi, in questo specifico davvero efficacissimi, che da qualche giorno dibattono leggiadramente sulla “qualifica corporale” affibbiata da lui a lei e da lei rispedita a lui in sede ufficiale e poi da lui di nuovo ribaltata su di lei, in attesa della prossima puntata. Tutte sceneggiature ben architettate a tavolino e via social per la gioia di amici, soci, clienti, tifosi e ultras di una parte e dell’altra e che tanto fa dibattere giornali e talk show.

Ora, che tra avversari politici ci si insulti a sangue non è una novità di questi anni, anzi, basti pensare al latrinoso “Cagoia” con il quale il Vate D’Annunzio aveva marchiato a fuoco l’odiatissimo Nitti. Per non parlare degli insulti irriferibili rivolti a Giolitti e De Gasperi, due tipini forse non meno autorevoli di Conte e Lollobrigida. E non c’è neppure da perdere troppo tempo ad analizzare la servile (e spassosa) dedizione con la quale gli opinionisti di destra difendono in tutto e per tutto l’operato della Meloni – “gli ha reso pan per focaccia!”, “ha messo a posto quel guappo di cartone!!”, “è così che una vera donna si difende dalle angherie del maschio alfa!!!”, “la Rete è tutta con lei!!!!” – e gli opinionisti di sinistra difendono in tutto e per tutto quello di De Luca – “l’ha sistemata pure stavolta!”, “ha tentato un’imboscata e si è squalificata!!”, “gioca alla femminista e poi penalizza le donne!!!”, “la Rete è tutta con lui!!!!” – ma questo fa parte del cabaret quotidiano sfornato della nostra meravigliosa categoria, che in quanto a equilibrio, trasparenza e schiena dritta non prende lezioni da nessuno. E poi dicono che nessuno legge più i giornali.

Il tema vero, quello profondo, che all’inizio fa ridere, ma poi a pensarci bene fa piangere, è che quando vedi istituzioni della Repubblica, politici sperimentati eletti dal popolo per esercitare funzioni fondamentali - sia chiaro: di tutti i partiti, nessuno escluso - scadere a livelli da lavandaia, da sciampista, da ubriaco molesto, da bimbominkia - ci siamo pure gustati un ministro che sbevazzava in bermuda in mezzo a nugoli di cubiste - questo non ha altro significato del consolidamento dell’unico vero postulato che tiene assieme quella fanghiglia che è la politica di casa nostra. E della politica di un po’ tutto l’Occidente, o di quel che ne resta.

E cioè, la dittatura del popolo. Ma non quello declamato ai tempi d’oro, che era una figura retorica con dietro una lunga storia connessa al concetto di comunità. No, qui stiamo parlando di tutt’altro, qui parliamo di quella poltiglia identificata con la gente, la massa, la mandria, il parco buoi, il popolo bue.

A forza di inseguire un consenso sempre più evaporante, sempre più gassoso, sempre più superficiale e a forza di costruire una società completamente deideologizzata e deresponsabilizzata, senza cultura, senza radici, senza fede, una mera massa di consumatori ottusi narcisisti cellulitici egoriferiti che fanno un reel al centro commerciale mentre il mondo gli casca sulla testa, a forza di scendere di livello, di abbassare la soglia, di inseguire il basso che più basso non si può, a un certo punto arrivi lì. Alla politica come circo, come avanspettacolo, come sitcom.

La cosa veramente sciocca, e al contempo davvero criminale, è far passare il concetto che il politico che vale, quello che vale la pena votare, quello di cui fidarti, è quello come te. Uguale a te. Ma uguale uguale. Lo puoi chiamare per nome, ti dà confidenza, si veste come te, la pensa come te, parla come te, insulta come te, appunto. E quindi va bene. È la tua cabala, non è così? Ed è questo il vero tranello, nascosto dietro il lsuo albertosordesco senso di onnipotenza, dietro la sua patetica arroganza, la sua demagogia da quattro soldi. Vota me, perché io sono come te. E tu, da vero babbeo quale sei, magari ci caschi pure. E ti dici che effettivamente è così, sì certo, lo voto perché è proprio come me.

E invece, per chiunque non avesse ancora portato il cervello all’ammasso, dovrebbe valere l’esatto contrario. Tu politico che vuoi assumere la responsabilità mostruosa di guidare un Comune o una Regione o addirittura un Paese e decidere il meglio per tutti in politica estera e interna e sanitaria e scolastica ed economica eccetera devi essere meglio di me, ma tanto meglio di me, ma tanto tanto. Più intelligente, più colto, più determinato, più rapido, più inflessibile anche se empatico, più strategico, più visionario e al contempo indifferente, anzi, insofferente nei confronti di chi ti tira la giacchetta, di chi ti lecca i piedi e di chi ti salta dentro il letto. Insomma, migliore. Dieci volte migliore, cento volte, mille volte. E quindi distante dalla fuffa, dalla sbobba, dallo spurgo, dal liquame che inzacchera la patetica vita di noi signori nessuno, noi poveretti, noi scappati di casa.

Quello sì che è un politico da votare. Uno che non ha niente a che fare con te. E non c’è niente di meglio che guardarsi allo specchio ogni tanto per capire che è quella la decisione giusta.

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