Il triste destino dei nostri insegnanti

Alla fine degli anni Ottanta, in una ridente cittadina del basso lago, la classica strategia dello studente di Lettere scappato di casa era quella di coniugare lo studio con mille lavoretti.

Cucitura degli spallacci in una ditta di zaini, consegna a domicilio delle guide del telefono, scrutatore e volantinatore e attaccamanifesti in campagna elettorale, raccoglitore di pere e mele, ripetizioni private ai figli asini del vicino di casa eccetera eccetera. Tutto rigorosamente in nero, naturalmente, come da aulica tradizione patria. Ma per chi scrive questo pezzo la vera svolta era avvenuta quando era riuscito a entrare nel giro delle supplenze scolastiche. Bastava un foglietto con l’autocertificazione dello status di laureando, consegnata a tutte le scuole medie e superiori del territorio e il gioco era fatto. Un giorno di supplenza lì, tre giorni là, poi dieci, poi trenta, addirittura un anno, se si era baciati dalla fortuna.

E quel periodo era quello dell’esplosione dei Cobas, che avevano frantumato il “regime” sindacale di Cgil, Cisl e Uil e dello Snals, storico sindacato di categoria. Saltava tutto per aria perché i “vecchi” erano accusati dai “nuovi” di non saper proteggere la dignità professionale e, soprattutto, il potere d’acquisto dei docenti. E le richieste dei Cobas erano mirabolanti: aumenti secchi di mezzo milione di lire nette al mese per tutti, senza distinzioni, assunzioni a pioggia senza concorso di tutti i precari, ma proprio tutti, equiparazione salariale assoluta tra presidi e docenti, lezioni di antifascismo permanente e sabati antifascisti e concerti antifascisti e pane e burro e salute imperitura e vita felice e donne formose e principi azzurri e castelli di marzapane e bla bla bla. Un Bengodi. Figuratevi l’entusiasmo di un ragazzotto venuto giù con la piena dell’Adda, che già si baloccava con la fanfaluca di uno stipendio faraonico senza fare sostanzialmente una mazza e che quindi seguiva con grandi aspettative il decisivo incontro tra i sindacati e il governo tal dei tali, c’era ancora il pentapartito, figurarsi, che sarebbe stato messo al muro dalla rivoluzione d’ottobre dei professori in armi.

Ma alla fine, visto che dopo ogni Bastiglia arriva sempre un Termidoro, passati mesi di insulti, ululati, titoloni sui giornali, sceneggiate in televisione e al Costanzo Show la montagna incantata dei Cobas aveva partorito il solito micragnoso topolino, qualche soldo in più in busta paga, l’inesorabile infornata ferragostana di precari e buonanotte al secchio. Tutti di nuovo nel grigio tran tran del prof di provincia senza arte né parte e con uno stipendio da fame. Causa maltempo, la rivoluzione è rinviata a data da destinarsi (cit.Ennio Flaiano).

Sono passati quarant’anni e siamo sempre lì. L’ultimo rapporto dell’Ocse conferma la triste realtà che i docenti italiani sono i più sottopagati d’Europa. Una roba drammatica, vergognosa. E purtroppo, visto il livello di demagogia e di irresponsabilità delle nostre classi dirigenti vecchie e nuove, destre, centre e sinistre, di fatto irrisolvibile. Quello che è accaduto negli anni Ottanta è proseguito bellamente pure dopo, perpetuando quel patto scellerato tra la politica e i sindacati per far diventare la scuola un gigantesco scatolone assistenziale, sottopagato sì, ma a tempo indeterminato e a orario di lavoro ridotto, inchiavardato nella logica ferrea dei contratti di lavoro collettivi e degli stipendi uguali per tutti, a prescindere dal merito, dalle competenze, dalle qualifiche, dal profilo professionale, dai risultati, senza alcuna possibilità di incrementi di carriera. Un patto che prevede l’ingresso di personale non qualificato e non selezionato per aumentare a dismisura i numeri di un settore assistito. Bacino elettorale formidabile della sinistra più ottusa, corporativa e massificatoria, che si è sempre battuta contro i premi al merito e che ha sventolato burbanzosa la sua unica bandiera identitaria: gli scatti di anzianità. Come Checco Zalone. Quindi, se un prof è un somaro passa dallo status di somaro giovane a quello di somaro esperto a quello di somaro venerabile. Mentre quello bravo - e quanti ce ne sono - continua a fare la figura del missionario o dell’eroe. O più generalmente del fesso.

Questo è uno degli errori più gravi della cultura di sinistra, dei più devastanti, dei più imperdonabili. Il totem di considerare un insegnante uguale a tutti gli altri, dentro un orizzonte di piattume assoluto, di assoluto conformismo, di totale mortificazione dei talenti, di assenza di gara, di sfida, di mercato intellettuale tra docenti e tra istituti. Basti pensare che l’unico che ha cercato di inserire qualche elemento di differenziazione per merito e funzioni è stato Belzebù Renzi - Renzi ha fatto anche cose buone – con la famigeratissima “Buona scuola” contro la quale si è infatti scatenata una rivolta di una violenza manichea senza precedenti, con il risultato che è anche per quello che il suo cadavere politico è ancora appeso per i piedi a un lampione di Palazzo Chigi.

E non ci si illuda che, dopo i ferrivecchi sinistrorsi, i fenomeni destroidi siano meglio, che al di là della solita sequela di chiacchiere e distintivi sull’italianità e la scuola del merito e altre fregnacce da diretta Facebook e di risibili divieti degli smartphone, non hanno messo in campo neanche uno straccio di idea per la scuola italiana del 2050. Basti pensare al tema dei temi, acutamente sottolineato da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, che è quello dell’integrazione scolastica dei nuovi italiani, che saranno i nuovi cittadini e i nuovi lavoratori e senza i quali tra pochi anni non saremo più in grado di pagare le pensioni e sostenere il sistema sanitario.

Bene, su questo non c’è niente. Zero. Solo valanghe di demagogia e infantilismo pseudorazzista che dà l’idea del livello del nostro dibattito politico. Bulgaria anni Cinquanta vs Strapaese anni Trenta: ci fossero ancora Gramsci e Gentile riderebbero dei loro ridicoli eredi.

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