Ci sarebbe da cercarli, vederli in faccia, parlarci. Sono quegli elettori che rappresentano il venti per cento dell’elettorato e dalla fine della Prima Repubblica, sono in perenne movimento tra un leader e l’altro. Si chiama voto liquido e questa volta si è riversato tutto o quasi su Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia. Ma è grosso modo quello che ha premiato Matteo Salvini e la Lega alle ultime europee e prima ancora i Cinque Stelle, Matteo Renzi quando stava nel Pd e Silvio Berlusconi in Forza Italia e nel Pdl. Gente che, specie negli ultimi tempi, si è rivelata piuttosto volubile e ci mette poco a cambiare cavallo, come segnalano i sondaggi che scandiscono il ritmo tra un’elezione e l’altra. Vedremo se la probabile prima donna a palazzo Chigi riuscirà a mantenere questo tesoretto e se non finirà logorata, come i predecessori, dall’azione di governo.
Inutile dire che Giorgia Meloni ha vinto perché hanno perso gli altri: sia come alleati (vedi alla voce Lega) sia in quanto avversari. Dalle parti del Pd non è servita la vecchia lezione per cui demonizzare l’avversario non convince gli elettori che guardano ad altro. L’avevano fatto, invano, con il Cavaliere, hanno deciso di ripetere l’azione autolesionistica con la leader di FdI, corroborati dal sostegno di una stampa forse amica fino a un certo punto. Il resto l’ha determinato la legge elettorale, il Rosatellum che premia chi riesce a fare squadra. Il paradosso è che si è sempre evidenziato come la destra fosse maggioranza nel Paese senza riuscire a guidarlo. Ce la fa nel momento cui, ce lo dice il risultato elettorale, maggioranza non è. Se si sommano i voti di centrosinistra, Terzo Polo e Cinque Stelle infatti, si va oltre il risultato di FdI, Lega e Forza Italia. Ma tant’è. Domani è un altro giorno, anzi, un’altra elezione: quella delle regionali in Lombardia.
E l’esito delle politiche di ieri, con le truppe meloniane che hanno sbaragliato nei territori a vocazione leghista quelle salviniane, potrebbe riaprire tutti i giochi: in particolare quello sul candidato presidente. Il Carroccio aveva optato con il sì degli alleati per la riconferma di Attilio Fontana. Ma adesso, al di là delle rassicurazioni di facciata che sono già arrivate dal fronte FdI, l’avvocato di Varese sembra avere in tasca qualche certezza in meno. Legittimo infatti che possa essere la prima forza della regione a indicare l’aspirante inquilino di palazzo Lombardia. E oltretutto questo andrebbe a intrecciarsi con le ambizioni di Letizia Moratti, attuale vice presidente e assessore alla Sanità, capace di raccogliere un consenso trasversale. Non è un mistero che piaccia anche agli esponenti del Terzo Polo, non fosse altro per rompere le uova nel paniere del centrodestra. Insomma, il voto di primavera rischia di essere uno dei nodi politici per il centrodestra che torna al governo del Paese dopo 11 anni. Giorgia Meloni conosce le insidie che l’attendono e già dal momento in cui ha avuto la certezza della clamorosa vittoria, si è mossa con i piedi di piombo. Non c’è da aspettarsi perciò che il dossier Lombardia deflagri. Ma la pratica resterà lì sul tavolo del la coalizione, anche nell’attesa di capire cosa accadrà dentro una Lega che, a livello nazionale, è scesa sotto quel 10% a cui la portò Umberto Bossi nel 1996 con però i voti di sole quattro regioni.
Se, dentro il Carroccio, dovesse tornare a prevalere la logica del “prima il Nord”, diventerebbe vitale mantenere la guida della Lombardia, oltre a quella del Veneto, dove però non si vota l’anno prossimo e in cui comunque la leadership di Luca Zaia va oltre quella dell’appartenenza alla Lega, anche a prescindere dai mutati rapporti di forza tra alleati.
La partita per palazzo Lombardia, insomma, è più che mai aperta: il voto per Roma rischia di terremotare anche Milano.
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