Premesso che l’Italia è storicamente il Circo Medrano e che quindi può succedere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, il sistema dei partiti non è mai stato così debole e ininfluente come ora.
Non fatevi impressionare dagli occhi di bragia e dagli scenari apocalittici che circondano il disegno di legge Zan - totalmente ideologico in chi lo propone e totalmente ideologico in chi lo contrasta - quello è solo uno sventolio di bandiere, una scelta di testimonianza, un espediente retorico, demagogico e disperato per far credere al popolo bue di essere ancora vivi, di decidere ancora qualcosa, di dettare in qualche modo l’agenda. Ma è tutta fuffa. I partiti non toccano palla, girano a vuoto, parlano e straparlano, discettano e proclamano su tutto senza però la forza di incidere praticamente su nulla, perché è arrivato uno che si è portato via il Monopoli e, di fatto, gioca solo lui.
Per fortuna, direte voi, perché non esiste persona con un minimo di sale in zucca che non preferisca sapere che i soldi del Recovery Fund verrano gestiti da Draghi piuttosto che da qualche curioso statista della scombiccherata compagnia di giro che ci rappresenta e che noi cervelloni votiamo regolarmente, anno dopo anno, elezione dopo elezione. Per fortuna, quindi. Ma, insomma, forse anche no. Perché se la cosa fondamentale è lasciar fuori i partiti da tutto quello che attiene alle scelte fondamentali della politica, allora a cosa servono i partiti? A cosa serve la politica? E infine, a cosa servono le elezioni? A cosa serve la democrazia? Tanto, che si voti questo o quello, poi alla fine è sempre al tecnico, tecnocrate e tecnocratico che bisogna affidarsi e allora non è meglio mettere per iscritto una volta per tutte che ci pensi lui? Siamo pronti, pur di mettere fine alla penosa agonia del sistema dei partiti - e dei movimenti, che come si è visto sono pure peggio - a passare a una forma rivista e corretta della monarchia costituzionale, a un regno dei migliori che si scelgono da sé, si giustificano da sé e poi elargiscono graziosamente diritti e doveri alla folla plaudente? Siamo arrivati a questo punto?
Se si guarda con un attimo di obiettività a come sono state gestite la campagna vaccinale, la trattativa con l’Europa per il Recovery, la riforma della giustizia e il rinnovo delle cariche Rai - e quest’ultimo è il vero monolito della partitocrazia, il vero simbolo della sua presa onnisciente sulla società, la sua vera rocca di Gibilterra – non si può che osservare con sollievo, e con sgomento, che è passato tutto sopra le loro teste, tutto è stato deciso prima e fuori, concedendo un po’ di becchime a sinistra, un po’ di becchime a destra e un po’ di becchime pure al centro. E questi qui sono andati avanti ad approvare tutto all’unanimità, chiavi in mano, servizio completo, perché al solo pensiero di un governo che cade e al baratro che attenderebbe il paese un nanosecondo dopo e le loro inutili, ma fastose poltrone un millisecondo dopo andrebbero tutti quanti fuori di testa.
Basta dare un occhio allo stato confusionale del movimento 5Stelle e alle sue convulsioni a metà tra il ridicolo e il grottesco, al presenzialismo affannato e pasticcione di Salvini che sente l’incombere ineluttabile del cono d’ombra che ha già ingoiato Renzi neanche troppo tempo fa e all’isolamento e al rischio di un perenne logorio fuori dall’arco costituzionale pure della Meloni, alla faccia dei sondaggi trionfanti. Massima entropia.
I partiti sono tutti alla canna del gas. Hanno capito, in ritardo, che l’operazione Draghi non è tattica, ma strategica. E che non siamo di fronte al classico salvatore della patria, al Cincinnato, alla riserva della Repubblica che tira fuori il paesello dalle peste e poi torna agli studi e ai convegni internazionali, quanto invece a un cambio di sistema, che attraverso l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, le elezioni del 2023 e la nascita di un governo della stessa matrice, alla faccia di chi vince nelle urne, garantisca serietà, continuità e credibilità. Perché, in fondo, è questo che è Draghi: una gigantesca fideiussione nei confronti del mondo, tolta la quale rischiamo, nel bel mezzo dei marosi di uno dei periodi più oscuri e inquietanti della storia recente, di andare a fondo in due minuti. E poi i partiti hanno capito, in ritardo pure qui, che anche l’elettorato, il loro elettorato, sta iniziando ad apprezzare il pragmatismo spietato del premier, uno che non è mai andato in un salotto televisivo proprio per dimostrare che il potere, quello vero, è di quelli che non appaiono mai, non di quelli che esibiscono il loro faccione e le loro cialtronate nei talk show da mane a sera.
Ma davvero c’è qualcuno che crede che un imprenditore o un professionista di centrodestra, fedele supporter dei relativi partiti, preferirebbe dare in mano il pallino a Salvini o a Berlusconi o a Tajani o alla Meloni? Ma c’è qualcuno che lo crede davvero? Ma davvero c’è qualche docente o intellettuale o funzionario pubblico di centrosinistra, agguerrito testimonial della bontà del riformismo socialdemocratico e della superiorità antropologica degli intelligentoni, che affiderebbe le sorti della nazione a Letta o Speranza o Conte o Di Maio? Ma davvero?
Ed è questo il vero cuore del dramma. E cioè che siamo tutti, o quasi, d’accordo sul fatto che quelli che ci siamo scelti non servono a niente, sono inabili alla causa, sono degli inetti da commissariare da parte di un potere sovrano, assoluto, sciolto dal voto e che sa già cosa è meglio per il popolo senza dovergliene rendere conto. Ed è ancora più drammatico il fatto che forse ha ragione lui, che forse è meglio così, perché questo almeno ha studiato, sa di cosa sta parlando e sa come entrare nella stanza dei bottoni, mentre i nostri Masanielli da strapazzo si filmano sui social mentre si strafogano di abbacchio alla scottadito pensando pure di essere degli strateghi. È un naufragio. E neppure tanto dolce, in questo mare di squali.
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