Forse è una coincidenza, ma, visto il personaggio, qualche dubbio ci può essere. Il Senato ha votato il primo “sì” all’elezione diretta del premier, riforma voluta fortemente da Giorgia Meloni che, secondo politologi, costituzionalisti e opposizioni parlamentari, depotenzierebbe il presidente della Repubblica. Il condizionale è d’obbligo perché il cammino del provvedimento è ancora lungo e accidentato e, alla fine, la montagna potrebbe partorire il classico “topolino”, e trasformare la riforma in una bandierina sventolata dal presidente del Consiglio. Perché il primo passaggio a palazzo Madama ci ha detto che gli italiani potrebbero eleggere direttamente il loro “premier” (una volta tanto questo termine sarebbe corretto anche dal punto di vista istituzionale perché oggi il capo del governo è un “primus inter pares”), ma non specifica come. Il che non è un aspetto secondario. Si sa che gli eleggibili potranno essere solo parlamentari (l’articolo 5 dice che “Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura”), il che rivela un’idiosincrasia nei confronti dei governi tecnici. Invece non è appunto noto quale sarà il sistema di elezione, se sarà richiesto un quorum o se si voterà su uno o due turni. Questa materia è delegata a una legge ordinaria che metterà mano anche all’attuale sistema con cui sono scelti deputati e senatori.
La riforma, se non ottiene il voto di due terzi di ciascuna camera (e non accadrà perché già al Senato è passata a maggioranza semplice e con le opposizioni in piazza per contrastarla), può essere soggetta a referendum. Per cui gli italiani potrebbero, con un’elezione diretta, affossare l’elezione diretta del capo del governo. Cosa possibile considerato che le forze del centrodestra, uniche a sostenere il premierato, sono maggioranza in Parlamento, ma non nel Paese. Anche se va detto che, negli ultimi anni, con i partiti che hanno inserito nel nome e nel simbolo i nomi dei propri leader, molti cittadini sono andati a votare convinti di scegliere anche il presidente del Consiglio che, invece, a oggi, è nominato dal capo dello Stato.
Ma torniamo alla coincidenza di cui sopra, collegata alla riduzione dei poteri del presidente della Repubblica (tra cui quello di indicare l’inquilino di palazzo Chigi), in conseguenza della riforma sull’elezione diretta del premier. Nei giorni scorsi, Camillo Ruini, presidente della Cei, cioè capo dei vescovi dal 1991 al 2007, ha rivelato al giornalista del Corriere, Francesco Verderami, che Oscar Luigi Scalfaro, quand’era presidente della Repubblica, aveva chiesto al cardinale, suo amico, un aiuto per far cadere il primo governo Berlusconi, nato nel 1994, dopo la netta vittoria elettorale del Cavaliere con la neonata Forza Italia.
A voler pensar male si potrebbe credere che Ruini, considerato di posizioni “moderate” all’interno del Vaticano abbia voluto offrire un assist al premierato (su cui invece si è espresso in maniera critica l’attuale capo dei vescovi italiani, il cardinale Matteo Maria Zuppi che può essere collocato tra i progressisti sempre che si possano applicare queste categorie alla Chiesa), affermando tra le righe che forse non è un male ridimensionare un po’ la figura del presidente della Repubblica.
Alla fine la verità potrebbe essere un’altra. In politica, più che le cariche e i poteri, devono contare le persone che le ricoprono e le esercitano. E allora il compito dei cittadini elettori diventa cruciale, anche in caso di elezione diretta del premier: quello di individuare le persone giuste. E sarebbe opportuno che fosse loro consentito anche nella scelta dei parlamentari che l’attuale legge elettorale invece consegna alle segreterie delle forze politiche. Però ora bisogna giocoforza cambiarla. Speriamo che si tenga conto di questo aspetto.
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