Don Roberto era un prete schivo, che amava stare tra le persone. Lontano da ogni la ribalta, si impegnava ogni giorno nel suo lavoro silenzioso. Parroco in uno dei quartieri più difficili della diocesi, si era messo al servizio degli abitanti. Senza distinzioni.
Di lui non si ricordano discorsi o interviste sui giornali. Ma quelli che l’hanno conosciuto dicono che era la sua vita a parlare. E così ieri mattina, appena si è diffusa la notizia, in piazza San Rocco si è spontaneamente radunata una piccola folla di persone che gli volevano bene: italiani sgomenti per aver perso un prete vero e soprattutto stranieri che piangevano un amico che sapevano essere al loro fianco.
Quando la violenza colpisce arrivando a togliere la vita di un giusto si rimane senza fiato. Le parole ci si smorzano in gola, le emozioni ci sovrastano: nulla può giustificare tanta efferatezza. Il silenzio ci afferra.
Possiamo allora far parlare don Roberto decifrando ciò che, con la sua vita, ha cercato di dire. E che oggi, con la sua morte, possiamo intendere più chiaramente.
Chi perde la sua vita la trova, è scritto nel Vangelo. Una parola che Don Roberto è stato capace di vivere fino in fondo. Non per spirito di sacrificio. Ma per desiderio di vita piena. Si dirà: “bel risultato: ucciso a 51 anni”. Ma mentre piangiamo umanamente la scomparsa di Don Roberto, tutti noi riconosciamo nel modo in cui egli ha saputo stare al mondo quel tratto straordinario che ci fa veramente uomini: la capacità cioè di dare la vita per gli altri. In un mondo che cerca disperatamente una sicurezza che ci sfugge da tutte le parti, don Roberto ha puntato sulla salvezza. Cioè sul senso pieno della vita, sulla sua integrità di parola e di azione.
La morte di Don Roberto ci dice poi che una città perde la propria anima quando abbandona al proprio destino la parte più fragile della popolazione. L’intera nostra civiltà occidentale si fonda sull’idea che la vita di ciascuno é sacra e la dignità di tutti va rispettata fino in fondo. I santi e gli eroi sono quelli che, nei momenti bui, decidono di tenere alta questa bandiera. E l’intera città di Como si deve interrogare sul modo in cui ci siamo abituati a (non) affrontare i problemi della povertà e della marginalità sociale. A maggior ragione oggi, al tempo del coronavirus, quando l’angoscia - che ci assale un po’ tutti - aumenta enormemente la violenza latente attorno e dentro ciascuno di noi.
Ancora, la morte di Don Roberto ci dice che in Italia esiste una zona grigia - aldilà dello stato di diritto - dove molte vite si consumano nell’abbandono e nella perdita dei criteri di base della comune umanità. La mano che si è levata contro Don Roberto è quella di un immigrato che, nonostante una ingiunzione a lasciare il paese, da anni continuava a vivere in Italia in forma illegale e in maniera invisibile. Una tipica ipocrisia italiana, dove paese legale e paese reale troppo spesso non coincidono. Lo stato deve mettersi d’accordo con se stesso: se si dà il foglio di via bisogna poi essere in grado di verificare l’attuazione della decisione. Oppure si deve operare per trovare soluzioni alternative. In tutti i casi, quello che non si può tollerare è il formarsi (e l’ingrandirsi) di una zona grigia che inevitabilmente finisce per costituire un terreno di illegalità ma anche di infinita sofferenza umana. E cio vale da maggior ragione a livello locale, dove l’amministrazione ha il compito di lavorare concretamente per garantire le condizioni di una convivenza civile. A partire dalla realtà e non dalle ideologie.
La morte Don Roberto parla con forza anche alla comunità degli immigrati a cui dice: non fatevi prendere dalla disperazione, dallo scoramento, dalla paura. Dopo questo atroce fatto criminale, non richiudetevi ancor più al vostro interno, col rischio di finire prigionieri di un ghetto da cui rischia solo di sprigionare odio. Cercate piuttosto il dialogo. E mettete in scacco i germi di razzismo oggi così forti in tutto il mondo sapendo che ci sono molti italiani che vi sono amici. Soprattutto contrastate la violenza dentro voi stessi e le vostre comunità. Predicate sentimenti di amicizia ed educate i vostri ragazzi al dialogo.
Infine, da lassù don Roberto parla anche a noi comaschi: nessuno strumentalizzi la mia morte. Non si moltiplichi l’odio dalla violenza che mi ha ucciso. Sappiate essere giustamente esigenti nei confronti di chi arriva in città. Ma, al tempo stesso, siate leali nel riconoscere la dignità di ogni persona. Fate rispettare la legge. E proprio per questo combattete lo sfruttamento del lavoro, lo strozzinaggio degli affitti, la segregazione scolastica. Non dimenticate che il razzismo è una malattia micidiale che uccide la convivenza civile. Sta prima di tutto a voi la responsabilità di fare di Como una città bella e ospitale, capace di guardare con fiducia all’avvenire.
Sono passati 21anni dall’omicidio di Don Renzo Beretta a Ponte chiasso. Oggi, Don Roberto è stato ucciso, in circostanze non troppo diverse, a San Rocco. La chiesa di Como può sentirsi orgogliosa di due uomini che non hanno avuto paura ad affrontare a mani nude, con la sola forza della loro fede, una delle grandi questioni del nostro tempo. Con semplicità, don Renzo e don Roberto hanno aperto il loro cuore e hanno messo a servizio le loro mani. Nel mondo dell’indifferenza, questi due nostri concittadini rinnovano la speranza che l’umanità può essere migliore di quella che è. Li ringraziamo per il loro esempio. Per il loro sacrificio. Nel loro nome, diamoci da fare tutti insieme per contrastare ogni violenza e per rendere Como più più umana.
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