Due giorni fa è morto, da solo come da solo aveva sempre vissuto, lo scrittore Vitaliano Trevisan. Il pudore che ancora qua e là sopravvive tra le pieghe dei giornali ha sorvolato sulle cause del decesso, che però sono fin troppo evidenti. E che di fatto lui aveva annunciato da sempre.
Non è questo il luogo dove fare una valutazione della sua opera di romanziere, saggista, attore (“Primo Amore” di Matteo Garrone) e drammaturgo e abbozzarne la dimensione critica e letteraria, ma vale invece la pena ricordare una sua esperienza di vita che ci offre una chiave di lettura profondissima e devastante della crisi ai limiti dell’irrisolvibile della società contemporanea.
Proprio Trevisan nel novembre scorso aveva consegnato a Repubblica una testimonianza terribile del suo ricovero coatto in un reparto psichiatrico, un diario dettagliatissimo di due settimane di puro orrore, tra isolamento, psicofarmaci, minaccia di Tso, vigilanza continuativa (il reparto dell’ospedale di Montecchio Maggiore, nel Vicentino, ora è stato chiuso) approdo inevitabile per uno sbalestrato della vita, che prima di mettersi a scrivere e recitare si era arrabattato con mille mestieri occasionali, strampalati e, in fondo, molto letterari, dal muratore al saldatore di gabbie, dallo spacciatore di hashish al venditore di mobili, dal portiere di notte al ladro di giubbotti e mille altre cose ancora.
Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto vero, il punto dirimente, quello che lancia uno sguardo allucinato molto al di là della sua singola parabola esistenziale, sta tutto nella riflessione con la quale chiude la testimonianza della sua esperienza in manicomio: “Tutti i ricoverati, a prescindere da sesso e religione, hanno in comune una cosa: sono tutti, ripeto, tutti italiani, di classe proletaria e sottoproletaria. E sono bianchi. Perché c’è poco da fare o da dire: è il proletariato e il sottoproletariato italiano bianco, oggi, a rappresentare la classe sociale meno protetta di tutte, la meno “vista” di tutte. Agli italiani bianchi di classe sociale inferiore, l’assistenza sociale di Stato può espropriare i bambini, mentre la psichiatria di Stato dal canto suo può internare a colpi di Tso e trattare ogni cosa a forza di psicofarmaci, senza che nessuna delle innumerevoli associazioni che lottano per i cosiddetti diritti civili abbia niente da dire”.
Ora, provate a togliere la barriera geografica e spostate questo ragionamento dall’Italia agli Stati Uniti. Non è forse la spiegazione più logica e convincente della vittoria di Trump di cinque anni fa e del fatto che ancora oggi la stragrande maggioranza dei suoi elettori, a dispetto dell’incultura e dell’impresentabilità del milionario, sarebbe pronta a rivotarlo? Tutti criminali? Tutti imbecilli? Tutti analfabeti? Certo, molti sì, ma non tutti, anche perché non dobbiamo mai dimenticare che criminali, imbecilli e analfabeti si spalmano in maniera omogena su tutti gli elettorati e tutte le classi sociali ed economiche, nessuna esclusa. Non è forse un’umanità perduta, abbandonata - che tanto ricorda quella dei violentissimi romanzi di Flannery O’Connor - devastata dai colpi della globalizzazione, dall’arroganza della finanza predatoria, dall’incomprensibilità del digitale e, soprattutto, non protetta da nessuno, visto che non appartiene alla categoria degli ultimi? Tutti si prodigano – giustamente - per gli ultimi (migranti, clochard, rifugiati…) ma nessuno per i penultimi. Ed è così che i penultimi diventano i veri ultimi: invisibili, inermi e abbandonati a se stessi. Ed è così che i penultimi diventano messa di manovra del primo demagogo che passa, che li convince che basta ululare “dagli al negro!” o “dagli all’islamico!” o “dagli al frocio!” per risolvere i problemi della loro vita laida e disintegrata.
E, allo stesso modo, uscendo dalla dimensione politica per entrare in quella della crisi sanitaria di questi mesi, non può forse essere questa la ragione dell’estensione, della irragionevolezza e, addirittura, dell’ideologia suicidaria dei no vax, che pur di non cedere all’Istituzione, alla Norma, al Potere, pur di urlare al mondo il proprio “No!” arrivano fino al punto di non farsi curare, di lasciarsi morire? Tutti criminali? Tutti imbecilli? Tutti analfabeti? Certo, molti sì, ognuno di noi ne conosce a mazzi, ma quanti ne conosciamo, sempre di imbecilli, tra fior di laureati, professionisti, imprenditori, commentatori - i danni che hanno fatto i media pure in questo campo… - attori, deputati, sportivi eccetera? Forse non è tutto così semplice. Forse alle radici di questo rifiuto così illogico, assurdo, intollerabile e irritante c’è tutto un mondo, un’eterna delusione definitiva nei confronti di chi, a torto o a ragione, avrebbe dovuto tutelarli e guidarli e istruirli e che invece li ha abbandonati a loro stessi, al loro destino, alle loro miserie economiche e soprattutto culturali, al loro abbruttimento, alla loro solitudine disarmata di fronte a fenomeni massivi, invasivi e rapidissimi – l’immigrazione, la globalizzazione, la digitalizzazione - che non tutti riescono a comprendere e ad assimilare e che, di fatto, hanno espulso intere fasce di popolazione dalla comprensione della realtà, dalla vita dentro una comunità.
Non sarebbe questo il compito delle cosiddette classi dirigenti? Non sarebbe questo il dovere civile e civico delle élite, della grande borghesia illuminata, senziente e pensante, cioè proprio quello di guidare la società sui percorsi migliori, difendere gli indifesi, garantire i diritti, offrire a tutti le stesse possibilità a prescindere dalla ricchezza o potenza della propria famiglia? Non avrebbero dovuto gestire loro, le cosiddette élite, la trasformazione della società in maniera graduale e sostenibile? Non è forse questo il tradimento dei migliori, di quelli che hanno studiato, che hanno viaggiato, che hanno deciso? Se i migliori erano davvero migliori, perché ora ci troviamo imprigionati nella dittatura dei peggiori?
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